domenica 25 marzo 2018

Io sono Misia - Lucrezia Lante della Rovere al teatro Comunale di Cagli



Magnetica, questa è la prima parola che mi viene in mente se ripenso al monologo di Io Sono Misia. 

Una narrazione di un'ora in cui vengono ripercorse con retrospezioni le tappe principali della vita di questa donna straordinaria. Misia Sert. Dalla neve russa sulla quale afferma di essere nata mentre sua madre moriva di dolore alle lezioni di pianoforte sulle ginocchia di Liszt, la nonna che sbocconcella pasticcini con la regina del Belgio, Toulouuuuuuuuse!!!, piccolo folletto innamorato e poi Nižinskij, Renoir e Cocò, Chanel, la sua amica, mai citata con il suo nome nella sua autobiografia.

Mi è piaciuta Lucrezia Lante della Rovere, la scenografia con questa immensa poltrona, i toni del verde e del rosso ad accentuare i contrasti di una vita che bruciava, bruciava, che ha bruciato tutto: oggetti, disegni, emozioni, ricordi e tempo. L'immensa, surreale poltrona, i capelli pazzamente rossi ericci mi riportano alla mente la figura del cappellaio matto intento a festeggiare, brindare alla salute dei convitati e di se stesso in una festa che ora è baccanale ora invece commemorazione dei defunti. La vita bruciata dei primi del Novecento tra il laudano di Verlaine e la morfina di Cocteau... Creando, plasmando arte e artisti, amati, coccolati, vezzeggiati e derisi.
Si, derisi!
Chi arriva ultimo bacia Toulouuuuuuuuuse!

Il monologo procede per immagini, le scene una dopo l'altra si materializano davanti agli occhi dello spettatore che non riesce a distogliere l'attenzione dalle parole. I gesti, la scenografia, la musica, tutto ha come unico scopo quello di sottolineare le parole, la parola è tutto, quella di Misia Sert, la sua versione della storia, o meglio, la sua versione della Storia, di quelle vite straordinarie che ogni tanto il Genio che governa la natura decide di far convogliare nello stesso luogo e nello stesso periodo affinché si incontrino, si influenzino, si compenetrino e al centro pone una musa ispiratrice, una mecenate che catalizza il genio, lo smaschera, lo sbuccia e lo palesa al mondo rendendolo eterno.

E Misia Sert ricalca le orme di altre grandi donne del passato, di Caterina de' Medici, Isabella Gonzaga, Lucrezia Borgia: musa e mecenate, ha contribuito alla fortuna dei più grandi artisti di fine Ottocento e inizio Novecento da Toulouse Lautrec a Proust a Nižinskij a Debussy e Picasso. 

Viziata sì! Megalomane sì! Istrionica sì!
Misia e Coco nel 1935
Una di quelle creature che riescono a fare della propria vita un'opera d'arte e Lucrezia Lante della Rovere quell'arte la porta in palcoscenico facendo rivivere quella Misia descritta nell'autobiografia, scritta affinché ai posteri possa essere tramandata la sua versione, non quella di altri che l'hanno vista e non conosciuta, come quei critici che imprigionano l'arte nelle teche, la fissano nel tempo come si fissa una farfalla morta nella collezione, bellissime e morte, che la rimproverarono di aver bruciato, perso, regalato opere dei grandi artisti che coltivava perché lei il peso lo dava alle persone e non agli oggetti, perché come scrive in "Misia" "Non riesco a provare il minimo rimorso per il fatto che una quantità di bei versi siano andati perduti, o che decine di disegni di Toulouse-Lautrec, fatti sui miei menù, siano stati spazzati via dalla mia sala da pranzo insieme alle briciole della cena della sera prima, né per il fatto di non essere più riuscita a ricordarmi in quale cassetto avevo ficcato quel sonetto di Verlaine (...) Sono sempre stata convinta che gli artisti avessero più bisogno di amore che di rispetto. Io li ho amati, loro, i loro piaceri, il loro lavoro, le loro pene e la loro gioia di vivere era anche la mia".

Getty images
La parola dà vita a scene che si susseguono, si inseguono, si accavallano l'una dopo l'altra, l'una sull'altra e nella mente si materializzano le immagini degli artisti dell'epoca, accennati appena da lampi di ricordi, flash, suggestioni, ripercorrendo l'autobiografia della donna e mi è difficile immaginare come lo spettatore che non conosce Misia Sert, che non ha letto la sua autobiografia possa comprender fino in fondo ciò che sta guardando. 
Il libro è una sequenza di ricordi, impressioni, avvenimenti ed emozioni che si alternano gli uni agli altri in ordine cronologico sì, ma offrendo poche date per orientare il lettore, come un flusso di coscienza i ricordi scritti scorrono come fiume in piena, appena arginati nella furia della corrente. 
Il monologo è un tornado nel cui centro viene attratta tutta la narrazione e da cui vengono sputati fuori, caotici e informi, i brandelli di quella storia, nomi, città, epoche che si ristrutturano nella mente dello spettatore obbligato a raccogliere i frammenti di informazioni gettati alla rinfusa fuori dal tornado per ridargli ordine, forma, sequenza. 
L'impressione è che senza il supporto dell'autobiografia non sia possibile la piena comprensione del monologo e che le esagerazioni, quasi affettazioni, della recitazione suonino pesanti, forzate, che si perda infine tutto il senso del finale, quel rincorrere la vita, la gioia, rigettare i ricordi, la loro polvere e tutte le madeleinettes cui era tanto legato Proust, quell'invocazione a Coco, alla sua amica, il desiderio, l'ansia di dover vivere ancora, fare ancora, amare ancora, aggrappandosi alla vita che inesorabilmente scivola tra le dita.

Ecco, l'intensità di quel finale è qualcosa che difficilmente si riesce a rendere con le parole, impossibile da descrivere, tutto solo da vivere in crescendo, crescendo, crescendo, come un Bolero.

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