martedì 1 novembre 2016

Il Castello dei Destini Incrociati ovvero quando la genesi di un'opera letteraria è essa stessa opera letteraria.


E' la prima volta che mi capita di provare maggior interesse per la genesi di un'opera letteraria piuttosto che per il suo contenuto. Certo molta parte della letteratura del Novecento è fatta più da studio che da storia, fabula e intreccio tendono sempre più ad assumere un peso equivalente laddove la prima è la storia propriamente detta e la seconda la maniera di portarla alla luce, tuttavia un esempio di genesi a tavolino così lampante ancora non mi era capitato.
Si badi bene, non mi riferisco alla costruzione a tavolino dei best seller per la quale esistono ormai scuole specifiche che insegnano come scrivere per generare un successo i cui studenti vanno poi a ingrossare e ingrassare le fila dei ghostwriter, mi riferisco alla genesi del racconto o romanzo postmoderno, all'irrazionalità derivante dalla razionalità portata all'estremo da quei simpaticoni dell'Oulipo che in qualche modo hanno contribuito a sdrammatizzare l'angoscia provata dallo scrittore di fronte alla vastità del materiale letterario passato e alla disgregazione del presente.
Il castello dei Destini Incrociati è un testo che si regge in piedi e racchiude nella sua genesi, consapevolmente, tutto il tentativo dello scrittore di dare una struttura (intreccio) alla storia (fabula). 
E mi torna in mente Mantissa di John Fowles (sfortunatamente non tradotto in italiano), Il taccuino d'Oro di Doris lessing, Under the Net di Iris Murdoch e tutta quella letteratura del Novecento in cui forte è il sentimento di impotenza dell'autore di fronte alla composizione letteraria.

L'OCCASIONE:
FortunaNel luglio del 1968 Paolo Fabbri tenne a Urbino una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Nasce in Calvino l'"idea che il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono". La carta, la parola, la storia possono assumere diverse connotazioni o significati a seconda del ruolo che hanno all'interno della costruzione ma anche a seconda delle esperienze di chi racconta, è così che la carta del Bagatto assume nei racconti il ruolo del mago o del ciarlatano oppure del poeta a seconda del contesto di carte in cui si trova in un caleidoscopio di figure e storie che muta fora a seconda di come lo si gira.

Mi immagino Calvino seduto alla scrivania che tira fuori una carta, poi un'altra e un'altra ancora, cerca di disporle in un ordine e di dare un senso a questa disposizione, quando il senso non si trova rimuove una carta, poi un'altra, le sostituisce, le alterna, le dispone in varie forme come per ordinare pensieri e storie ma invece di scegliere la forma temporale da sempre congeniale alle opere a cornice (vedi Decameron, Racconti di Canterbury...) ne sceglie una geometrica: il quadrato, a lui più congeniale, rivelatore della sua appartenenza all'Oulipo.
Mentre dispone, toglie e alterna pare quasi che le carte stesse, le storie, i personaggi si impongano, autodeterminino se stesse e il loro posto nella storia, a destra di questa, a sinistra di quell'altra. E' Calvino che organizza il materiale, le carte, per raccontare delle storie o sono le storie che si organizzano per farsi raccontare da Calvino? E' l'autore che sceglie cosa narrare o sono la mille e più storie già narrate in passato che riaffiorano e cercano nuove soluzioni narrative tra le mani di Calvino? Non posso non pensare all'Orlando Furioso, a Macbeth, Faust... chi decide di raccontare e chi decide di farsi raccontare? 
Questo sentimento di impotenza si manifesta all'inizio della Taverna quando mani prepotenti tentano di scombinargli il materiale narrativo, frugano, nascondono, rubano e il narratore cerca in tutti i modi di trattenere le sue carte quando due mani forti iniziano ad aiutarlo a bloccargli le carte sul tavolo finché tutto ciò che resta a sua disposizione sono le carte trattenute dalle mani del salvatore sconosciuto e con quelle deve raccontare la sua storia. E' forse questa la figura dell'editore? Il narratore è allora libero di raccontare ciò che vuole o può raccontare solo quello che ha a disposizione? Per chi scrive l'autore? Per se stesso? Per l'editore? Per il lettore? Quando è stata l'ultima volta che un autore ha riscosso successo per qualcosa che ha scritto solo per se stesso? Non si piegano forse tutti al volere di qualcun altro?

Calvino ha a disposizione due mazzi di tarocchi: uno quattrocentesco col quale scriverà Il Castello dei destini incrociati e uno settecentesco che gli fornirà la materia per La Taverna dei destini incrociati.
Nel primo il materiale è più accattivante, il linguaggio più semplice, le storie concise e di immediato impatto, si riconoscono subito citazioni a Faust a orlando Furioso, anche il modo con cui Calvino tratta i temi dei suoi racconti è semplice e di immediata comprensione, boccaccesco quasi. Nella taverna tutto cambia, il linguaggio si fa più alto, le storie si dilungano in speculazioni a tratti filosofiche, le citazioni sono alte, dalla Terra Desolata di Eliot a Chrétien de Troye (e chissà quanti altri che non ho riconosciuto). Su tutti domina il tema della possibilità, c'è un grande ricorso al tema dell'incertezza e proprio la prima storia che viene narrata è quella dell'indeciso.

Lungo tutta l'opera, dall'introduzione alla conclusione serpeggia il tema dell'interpretazione. In entrambi i contesti (castello e taverna) i personaggi non possono parlare ma solo narrare la loro storia attraverso le carte dei tarocchi. Ognuno dispone le proprie carte sul tavolo e gli altri avventori costruiscono una storia verosimile. Se nel Decameron per ogni giovane c'erano dieci storie narrate nell'opera di Calvino per ogni narratore ci saranno tante storie narrate quanti saranno gli avventori presenti alla narrazione. Il lettore ha a disposizione ciò che riporta solo uno degli avventori ma l'opera di Calvino avrà nel tempo migliaia di lettori
e dunque migliaia di possibili storie e interpretazioni.

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