sabato 14 aprile 2018

Emile Zola: Nana - La pesantezza del Naturalismo


Capitolo 3 e ancora non scorre.

Forse è colpa mia: sono io, ormai stagionata, stufa di leggere di donne raccontate da uomini e mi faccio coinvolgere di più da donne descritte da penna femminile.



Fine capitolo 3, ancora nulla.

E' una dissezione della società parigina: i salotti, il tè, i discorsi...
Osservazione scientifica, lo sguardo come una cinepresa si sposta ora su questa, ora su quella conversazione, ora su questo, ora su quell'oggetto. Una mosca quasi.
La sensazione di toccare una scatola di metallo.
Troppo scientifico, non fa per me.

L'apice della maniacalità descrittiva, vera ostentazione di ritratti e oggetti, con opulente ridondanza verbosa di tutto quello che in una scena si può fisicamente e metaforicamente inserire, Zola la raggiunge al capitolo quarto durante il pranzo di Nana: commensali e lettore ne escono storditi al punto tale da necessitare di sbracarsi sul sofà con un buon caffè ristretto.
E di bis neanche a parlarne.
Non metto in discussione l'arte, di sicuro ognuno di noi ha un limite e il mio è il naturalismo di Zola.

1877 Nana - Édouard Manet
E' claustrofobico, ecco cosa è il Naturalismo per me.
La sovrabbondanza di oggetti, tappeti, ninnoli, vestiti, cappelli, polvere, persone... Li sento tutti attorno a me e mi soffocano, stringono...
In Nana la sovrabbondanza è esagerazione, eclettismo, in un crescendo malato di accumulazioni: si accumulano parole, oggetti, persone, perversioni. Nana è il desiderio di appagare impulsi superficiali, nutrire capricci e mai se stessi.
Detesto Nana, detesto Muffat e tutta quella corte dei miracoli che succhia o si fa succhiare fino al midollo per poi risputare o farsi sputare fuori come nocciolo di ciliegia spolpato, vittime e carnefici a turno, tutti vogliono qualcosa e nessuno è mai soddisfatto.

No, non mi è piaciuto, è stata dura arrivare fino alla fine e all'idea di leggere un altro Zola mi sale l'ansia da prestazione.
Germinal mi guarda dal ripiano della biblioteca, ammicca, lo ignoro e passo oltre.

Non nego però che ci siano alcuni spunti interessanti da approfondire che accennerò di seguito.

(Commento a metà della scrittura dell'approfondimento: AIUTO! il materiale di digressione è molto più ampio di quanto mi aspettassi... perdonate la lunghezza del post ma qui si fa come con le ciliegie: una tira l'altra e mi fermo solo per evitare l'indigestione che avverrà in un altro post) 

Per una digressione sulle puttane è su come muoiono vedi il post dedicato Come muoiono le puttane.

La Mignotte. Per deformazione non professionale tendo a focalizzare l'attenzione sul vocabolario e l'etimologia, il mio più grande sogno sarebbe possedere un Französisches Etymologisches Wörterbuch (FEW), dizionario etimologico della lingua francese: 25 volumi di vocabolario delle lingue gallo romanze... Perché? Perché ci ho messo occhi e mani sopra ai tempi degli studi e ancora ricordo come una sensazione fisica la sontuosità dell'opera, i volumooooni conservati nello studio della prof. di glottologia, accessibili solo a pochi eletti, li guardammo a turno in processione, rubandoci il tempo l'uno all'altro.
Ma torniamo alla nostra Mignotte, è il nome della tenuta che Nana, una mignotta, riceve in regalo da uno dei suoi amanti. Avevo letto d qualche parte o qualcuno mi aveva detto che il termine mignotta deriva dal latino filius m. ignotae, annotazione sui registri anagrafici dei neonati abbandonati.
E invece no! Deriva dal francese antico mignotte ovvero carina, graziosa, caduto in disuso a partire dal XVII secolo per essere sostituito dall'attuale mignon / mignonne e nel frattempo migrato in italiano con il significato di "favorita" da cui, appunto, mignotta, donna dai facili costumi.
Era una curiosità che dovevo togliermi visto che mi ha accompagnata come un tarlo per tutta la lettura.

Fontan
A fine post riporto dichiarazioni che Emile Zola rilasciò a Edmondo de Amicis nel corso di un colloquio incentrato sul suo modo di scrivere un romanzo ovvero che una volta deciso il soggetto della narrazione Zola iniziava dalla descrizione degli ambienti e delle situazioni in cui il personaggio può ritrovarsi. Dopo aver letto quelle dichiarazioni a mio avviso stride, circa a metà del romanzo, la parentesi stracciona di Nana, quasi che l'autore ce la abbia voluta schiaffare a forza inseguendo un filo conduttore serpeggiante in tutta la saga dei Rougon Maquart. La protagonista, arrivata all'apice della sua fortuna, abbandona tutto per vivere con un attoruncolo squattrinato che vive alle sue spalle costringendola di fatto a tornare sul marciapiede da cui era partita. Era passata da dea a spazzatura e il suo uomo (uomo?) le vomitava in faccia quotidianamente tutta la sua frustrazione di maschio fallito. Litigavano per noia, lei si faceva picchiare e sfruttare per poi accoccolarglisi accanto la notte e chiedere perdono.
Neanche un cane.
Nana e Fontan. 1880.
Sospesi in un tempo indefinito interpretano lo stereotipo di coppia violenta, basata su soprusi e sottomissioni che attraverso secoli di letteratura accompagnando i lettori dalla Griselda boccaccesca alle coppie scalcagnate di Céline. Di consolatorio c'è solo la sensazione di ritrovare vecchi compagni di viaggio. Di sconsolante c'è che da secoli, millenni, da sempre molte, troppe relazioni si basano su rapporti di forza.
Eppure la relazione nasce dal desiderio di purezza, un sogno di normale vita domestica, di quotidianità, di sogni avverati.
"Nella sua cotta per Fontan, sognava una piccola stanza luminosa, ritornando al suo antico ideale di fioraia, quando non vedeva più in là di un armadio di palissandro a specchio e di un letto ricoperto di reps azzurro"... ideale di fioraia... prostituzione... ecco che i libri sono come ciliegie!!! Ecco l'illuminazione, una delle tante, torna alla mente il Pigmalione di George Bernard Shaw e le parole di Eliza quando "è tutto finito": "Vendevo fiori. Non vendevo me stessa. Adesso che di me hai fatto una lady non sono adatta a vendere nient'altro. Preferirei che mi avessi lasciata dove mi hai trovata". E il sogno con Fontan si trasforma in fretta in incubo "Fontan le promise un altro schiaffo se si fosse mossa ancora. Poi spense la candela, si sdraiò supino e cominciò subito a russare. Lei, col viso nascosto nel cuscino, piangeva a piccoli singhiozzi. Era una vigliaccheria abusare così della propria forza. Aveva avuto veramente paura, tanto la maschera buffa di Fontan era diventata terribile. E non era più in collera con lui, come se lo schiaffo l'avesse calmata. Lei lo rispettava, si schiacciava contro il muro, sulla sponda del letto, per lasciargli tutto il posto... Facendo quelle considerazioni finì per addormentarsi, con la guancia calda, gli occhi pieni di lacrime, in uno sfinimento delizioso, in una sottomissione così languida, che non sentiva più neppure le briciole. (...) Non lo avrebbe fatto più, non è vero? Lo amava troppo, da lui, gli piaceva anche essere schiaffeggiata. (...) La maggior parte delle volte, dopo le botte, accasciandosi su una sedia, singhiozzava per cinque minuti. Poi dimenticava tutto, e diventava allegrissima, con canti, risate e corse che riempivano l'appartamento del volo delle sue gonne. (...) Litigare era un modo per ammazzare il tempo".

Steiner
E poi c'è la questione ebraica. L'avevate notato? Probabilmente attanagliata dalla lettura di una storia morta in partenza ho cercato continuamente appigli per mantenere vivo l'interesse. Come quando sui banchi di scuola ci si dava pizzicotti a vicenda per tenersi svegli ho cercato particolari che potessero risvegliare l'interesse. E uno di questi riguarda Steiner, il banchiere ebreo. In realtà c'è ben poco per appigliarsi, solo che a un certo punto Nana "lo trattava da sporco ebreo, e sembrava così appagare un antico odio" e prima ancora Vandeuvres ritrae lo spettacolo che dà il banchiere: "Il banchiere era celebre per i suoi colpi di fulmine; quel terribile ebreo tedesco, quell'affarista le cui mani maneggiavano milioni, diventava un imbecille quando si incapricciava di una donna, e le voleva tutte (...) a qualsiasi prezzo. Come diceva Vandeuvres, le donne vendicavano la morale, ripulendogli la cassa" . Il caso Dreyfus sarebbe scoppiato solo diciotto anni dopo ma la questione dell'antisemitismo non era sconosciuta, dopotutto è dai tempi di Shakespeare che si affaccia nella letteratura europea. Riassumendo, Dreyfus era un soldato ebreo accusato nel 1898 di alto tradimento. Zola scrisse un editoriale a sei colonne sul giornale socialista L'Aurore per denunciare i persecutori di Dreyfus trasformando quello che era un problema di giustizia militare in una questione di antisemitismo.
E l'Affaire Dreyfus è IL caso che impegnerà la Francia dalla Guerra Franco Prussiana fino alla Prima Guerra Mondiale ovvero dal finale di Nanà fino a poco oltre la morte del suo autore. E la stessa Guerra Franco Prussiana ricorrerà come tema in quasi tutti gli autori di quegli anni da Zolà a Huysmans (Sac au Dos) a Maupassant (Deux amis), si insinua nella tela del romanzo alla fine del terzo capitolo sulle labbra di madame Du Joncquoy "Voi dite che monsieur de Bismarck ci dichiarerà guerra e ci batterà... Oh, questa sì che è grossa!" e scoppierà in un crescendo di grida fuori dal Grand Hotel in cui [SPOILEEEEEEERRRRR] muore Nana "A Berlino! A Berlino!" come se fosse una questione personale di ogni francese contro ogni tedesco.
O di ogni francese contro ogni altro.
E l'ironia di queste grida risiede nel fatto che la pubblicazione dei Nana è del 1880 e la Guerra Franco Prussiana si è conclusa nove anni prima con la cocente sconfitta dei francesi nella battaglia di Sédan. Una sconfitta che ebbe pesanti ripercussioni nella politica francese tento da portare alla caduta del terzo impero e alla nascita della Repubblica.

[ATTENZIONE SPOILEEEEEEERRRRR]

La morte di Nana
E giungiamo infine alla morte di Nana.
Credo di non aver mai letto qualcosa di più deludente della morte di Nana. Circondata da curiosità morbosa e tuttavia sola, Zola ci consegna un finale moralista alla Laclos vecchio di un secolo. L'autore non lascia spazio all'immaginazione del lettore, non gli permette di trarre da solo le proprie conclusioni ma spiattella le proprie in due parole privando il lettore della soddisfazione di dare all'opera il suo significato.
"Una vivida luce rischiarò bruscamente il viso della morta. Lo spettacolo era orribile. Tutte fremettero e fuggirono. (...) Nanà restò sola, col viso all'aria, nel chiarore della candela.  Era un carnaio, un ammasso di pus e di sangue, una palettata di carne marcia, buttata là, su un cuscino.  Le pustole avevano invaso tutto il volto, i bubboni si toccavano l'uno con l'altro, e, avvizziti, disfatti, grigiastri come il fango, sembravano già una muffa della terra, su quella poltiglia informe, nella quale non si distinguevano più i lineamenti.  Un occhio, il sinistro, era completamente sparito nel gonfiore della purulenza, l'altro, semiaperto, s'incavava come un buco nero e marcio.  Il naso suppurava ancora.  Una crosta rossastra partiva da una guancia, e invadeva la bocca, che tirava in un riso orrendo.  E, su quella maschera spaventevole e grottesca del nulla, i capelli, i bei capelli, conservavano il loro fiammeggiare di sole, e si spargevano in un'onda d'oro.  Venere si decomponeva.  Sembrava che il veleno preso nei rigagnoli, sulle carogne, quel fermento col quale aveva avvelenato un popolo, le fosse risalito fino al volto, e glielo avesse imputridito."
E' il tema della putredine, caro a Zola, che striscia lungo tutto il romanzo, della contaminazione dentro-fuori: il marcio di dentro che si rivela, il marcio fuori che contamina e avvelena.
Nella descrizione che Fauchery fa di Nana sul giornale, al capitolo settimo, troviamo la descrizione più oggettiva della donna, una descrizione che non si sofferma alla bellezza e al fascino cui tutti sembrano essere assoggettati ma la ritrae dall'interno, svelandone il marcio: "vendicava i pezzenti e i falliti di cui era il prodotto. Attraverso di lei, la putredine lasciata fermentare nel popolo, risaliva e infettava l'aristocrazia. Era una forza della natura, un inconscio fermento di distruzione." E Muffat comprende tutta la verità di quella descrizione, ciononostante non può fare a meno di quella donna "Era proprio così: in tre mesi ella aveva contaminato la sua vita; si sentiva già inquinato fino alle midolla da sconcezze che un tempo non avrebbe neppure immaginato. Sentiva che in lui tutto stava imputridendo. Ebbe subitanea coscienza dei rischi del male: vide la disgregazione causata da quel fermento, lui avvelenato, la sua famiglia distrutta, un angolo della società che scricchiolava e colava a picco. E, non potendo distogliere gli occhi da Nana, la guardava fissamente, cercando di riempirsi l'animo del disgusto della sua nudità."
Il tema dello sporco e della distruzione si ripetono, come onda arriva e poi viene risucchiata dalla risacca per tornare poco dopo: "Non le bastava distruggere le cose, le voleva sporcare. Le sue mani, così sottili, lasciavano tracce ignobili, decomponevano tutto quello che avevano spezzato. (...) Uscì di casa elegantissima, per andare ad abbracciare Satin per l'ultima volta, impeccabile, solida, tutta nuova, come se non fosse mai stata usata."
Come una fenice sembra risorgere e purificarsi nel fuoco ogni volta. Ogni volta, toccato il fondo, dimentica il marcio e lo fa dimenticare a chi la circonda. Ogni volta fino all'ultimo.
Per una carrellata di puttane celebri invito a seguire il link Come muoiono le puttane.

Caricatura di Zola a seguito del suo J'Accuse
Per approfondire la scrittura di Zola lascio le parole di Edmondo de Amicis in Ricordi di Parigi del 1879 in cui vengono riportate le dichiarazioni di Zola intorno alla sua opera di romanziere: "Io non so inventare dei fatti; mi manca assolutamente questo genere di immaginazione. Se mi metto a tavolino per cercare un intreccio, una tela qualsiasi di romanzo, sto anche lì tre giorni a stillarmi il cervello, colla testa fra le mani, ci perdo la bussola e non riesco a nulla. Perciò ho preso la risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere né che avvenimenti vi si svolgeranno, nè che personaggi vi avranno parte, né quale sarà il principio e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista, il mio Rougon o Macquart, uomo o donna; che è una conoscenza antica. Mi occupo anzi tutto di lui, medito sul suo temperamento, sulla famiglia da cui è nato, sulle prime impressioni che può aver ricevute, e sulla classe sociale in cui ho stabilito che debba vivere. Questa è la mia occupazione più importante: studiare la gente con cui questo personaggio avrà che fare, i luoghi in cui dovrà trovarsi, l'aria che dovrà respirare, la sua professione, le sue abitudini, fin le più insignificanti occupazioni a cui dedicherà i ritagli della sua giornata. Mettendomi a studiare queste cose, mi balena subito alla mente una serie di descrizioni che possono trovar luogo nel romanzo, e che saranno come lo pietre miliari della strada che debbo percorrere. Ora, per esempio, sto scrivendo Nana: una cocotte. Non so ancora affatto che cosa seguirà di lei. Ma so già tutte le descrizioni che ci saranno nel mio romanzo."

Sono dunque le descrizioni degli ambienti in cui si muove il personaggio che danno vita alle storie, creano intrecci...
E poi il bisogno di sconvolgere, fare rumore per dimostrare di esistere.

"- Qui non si fa nulla, - disse, smettendo per la prima volta il pugnale, ma riafferrandolo subito, - nulla, se non si fa chiasso. Bisogna essere discussi, maltrattati, levati in alto dal bollore delle ire nemiche. Il parigino non compra quasi mai il libro spontaneamente, per un sentimento proprio di curiosità; non lo compra che quando glie ne hanno intronate le orecchie, quando è diventato come un avvenimento da cronaca, del quale bisogna saper dir qualche cosa in conversazione. Pur che se ne parli, comunque se ne parli, è una fortuna. La critica vivifica tutto; non c'è che il silenzio che uccida. Parigi è un oceano; ma un oceano in cui la calma perde, e la burrasca salva. Come si può scuotere altrimenti l'indifferenza di questa enorme città tutta intenta ai suoi affari e ai suoi piaceri, ad ammassar quattrini e a profonderli? Essa non sente che i ruggiti e le cannonate. E guai a chi non ha coraggio!"

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