domenica 21 maggio 2017

Elogio dell'Imperfezione - La Quest per il NGF


Se non fosse un'autobiografia potrebbe benissimo essere un romanzo d'avventura, una Quest, una Cherche, la Ricerca del Sacro Graal della neuroembriologia, Il NGF, il fattore di crescita nervoso, una proteina studiata ancora oggi per trovare la cura ad alcune delle più gravi malattie che colpiscono il sistema nervoso, come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la malattia di Alzheimer e i tumori.
Tutto ebbe inizio al capezzale della sua tata, Giovanna, che prestava servizio in casa come governante. Rita aveva appena terminato il liceo femminile che a quell'epoca non dava accesso all'università, per tentare l'esame di ammissione alla facoltà di medicina doveva mettersi in pari nelle materie che al liceo femminile erano trascurate: latino, greco e matematica, dopo otto mesi trascorsi sui libri grazie a insegnanti privati nell'autunno del 1930 superò l'esame e fu ammessa all'università, all'epoca le ragazze del primo e secondo anno erano sette, tra loro Rita Levi -Montalcini e sua cucina Eugenia, tra le matricole come lei spiccava un sedicenne che primeggiava su tutti in materie come biologia, fisica e chimica, era Renato Dulbecco, Nobel per la medicina nel 1975.
Al secondo anno di medicina l'incontro con il mentore di tutta la sua vita, Giuseppe Levi, anche lui ebreo, si rincorsero, raggiunsero separarono e riavvicinarono per tutta la vita, fu lui ad assegnarle come primo compito il conteggio e l'analisi delle cellule nervose, attività che la scienziata portò avanti per tutta la vita.
Nel 1936 la laurea in medicina poi, con la promulgazione dell leggi razziali prese la decisione di trasferirsi in Belgio, dove già si era trasferito il professor Levi, all'avvento dell'occupazione nazista fece ritorno a Torino ma non potendo fare ricerca né esercitare la professione medica si costruì un laboratorio in casa a Torino e il professore si unì a lei e alle sue ricerche sugli embrioni di pollo.
Una strana coppia che di fronte all'orrore e all'ingiustizia imperanti tutt'attorno reagiva tuffandosi nella ricerca scientifica per trovare uno scopo al loro attaccamento alla vita.

"A distanza di tanti anni mi sono molte volte domandata come potessimo dedicarci con tanto entusiasmo all’analisi di questo piccolo problema di neuroembriologia, mentre le armate tedesche dilagavano in quasi tutta l’Europa disseminando la distruzione e la morte e minacciando la sopravvivenza stessa della civiltà occidentale. La risposta è nella disperata e in parte inconscia volontà di ignorare quel che accade, quando la piena consapevolezza ci priverebbe della possibilità di continuare a vivere."

Un simile distacco emotivo traspare dalle parole scelte in due punti importanti della narrazione: quando descrive per la prima volta la gemella Paola e quando narra della malattia e morte di suo padre. Nel descrivere la sorella utilizza termini impersonali "Questa era soltanto una delle differenze, palesi sin dai primi anni di vita tra noi. Le altre non meno significative, che rivelavano a prima vista la nostra gemellanza biovulare, trasparivano dall'aspetto fisico, dal carattere e dal comportamento". L'utilizzo del termine tecnico di "gemellanza biovulare", suona pesante e sgraziato, troppo lontano dalla percezione di come dovrebbe essere descritta una sorella, a maggior ragione gemella. 
Nella seconda occasione scrive "Alla fine di maggio papà soffrì per la prima volta di fenomeni circolatori cerebrali di brevissima durata" e poi "Il 30 luglio sopravvenne durante la notte una grave crisi anginosa... si aggiunse un dolore acuto all'emitorace destro". La Levi-Montalcini sta descrivendo la morte di suo padre e sembra invece che scriva di un paziente qualunque, come se con questo linguaggio impersonale si costruisca una barriera tra sé e la sua emotività, impedendosi di rievocare, a tanti anni dall'accaduto, emozioni che la turberebbero così come durante la seconda guerra mondiale si rifugiava davanti al suo microscopio per sfuggire alla barbarie. Gigi Magri la descrisse come "una specie di seppia pronta a schizzare inchiostro contro chi ti avvicinava", questa repulsione verso il contatto sia fisico sia emotivo potrebbe essere tra i motivi che consentirono all'amicizia/collaborazione con Giuseppe Levi di protrarsi così a lungo, fino agli ultimi anni di vita di lui che la vide sempre come una studiosa mettendo le sue capacità in primo piano rispetto alla persona.

Il libro scorre con una velocità straordinaria, scorrendo le pagine mi torna in mente Frodo e la Compagnia dell'Anello mentre affrontano mille ostacoli per portare a termine la sua missione: le leggi razziali, la guerra, la fuga a Firenze, l'attività di falsaria di documenti, la parentesi nella Croce Rossa e poi, finalmente, gli Stati Uniti dove potersi dedicare totalmente alla sua Quest senza più ostacoli. Etnia, sesso, ceto... nulla più contava, solo l'impegno, la dedizione, l'intuito.
E la squadra.
Nella Cherche classica l'eroe è soprattutto solo. Solo era Ulisse, soli erano Orlando, Perceval e Galahad. Con Tolkien la missione diventa di squadra, di Compagnia. Rita Levi-Montalcini ebbe notevoli compagni d'avventura: Giuseppe Levi, Renato Dulbecco, Viktor Hamburger, Herta Meyer e a ognuno di loro rende omaggio nella sua autobiografia sottolineando come i risultati ottenuti dalla ricerca siano possibili solo con la collaborazione, con lo scambio continuo di informazioni, idee, materiali. Se Herta Meyer non avesse messo a disposizione di Rita la sua unità di colture in vitro a Rio de Janeiro i successi della ricerca sarebbero stati molto più lenti.
Lo ammetto, a distanza di più di dieci anni mi brucia ancora. Mentre preparavo la mia tesi di laurea avevo raccolto materiale in mezza dozzina di biblioteche del Nord d'Italia, ero riuscita a ottenere microfilm di manoscritti trecenteschi e quattrocenteschi da Londra, Parigi, Madrid e New York. Ma una stronza di professoressa torinese mi negò il microfilm e altro materiale in suo possesso. Materiale pubblico pagato con le tasse di cui si era appropriata e che custodiva gelosamente nel suo studio. A distanza di più di dieci anni penso ancora a quel rifiuto che altro non è se non lo specchio dell'egoismo e dell'individualismo che dilaga in certe facoltà italiane. Parentesi personale chiusa.

A tratti fiaba, a tratti avventura, in ogni capitolo della prima metà dell'autobiografia si insinua la rivolta discreta e silenziosa. E tutto ha origine nelle parole di suo padre, uomo vittoriano in tutto quel che riguardava il lavoro e le relazioni familiari, manifesta atteggiamenti anarchici quando si tratta  di religione:
"Voi siete liberi pensatori. Quando avrete compiuto ventun anni deciderete se continuare così o se invece aderire alla fede ebraica o cattolica. Ma non ti preoccupare, se te lo chiedono, devi rispondere che sei una libera pensatrice"Così feci da allora, suscitando grande perplessità in chi mi rivolgeva la domanda, che non aveva mai sentito parlare di questo tipo di religione... Così eravamo diventati, prima ancora di imparare a leggere, scrivere e tanto meno pensare, "liberi pensatori", una situazione che rendeva ancora più acuto il senso di isolamento che nostro padre con questo compromesso sperava di evitarci.
Con una premessa simile e un'indole non propensa alla maternità o alla vita familiare queste parole si manifestano, contrariamente alle stesse intenzioni del padre, come un lasciapassare per decisioni future prese in autonomia, sfuggendo agli stereotipi dell'educazione vittoriana impartitale che, come scriveva Ruskin nel suo libro Sesame and Lilies "deve essere diretta non allo sviluppo della donna ma alla rinunzia di se stessa. Mentre l'uomo deve sforzarsi di approfondire le sue conoscenze in tutte le branche dello scibile, la donna si limiti a concetti generali della letteratura, arte, musica o natura. Questo le servirà a rendersi conto dell'immensa piccolezza del suo orizzonte e della sua nullità di fronte al Creatore".
Le parole del padre devono aver continuato ad affacciarsi alla sua mente se a distanza di tanti anni, tra le poche pagine dedicate al padre scomparso quando era ragazzina, c'è proprio questa esortazione, ripetuta due volte a poche pagine di distanza. Probabilmente lui aveva maturato questo concetto riferendolo esclusivamente alla religione perché era uomo e dunque aveva già tutta la libertà di pensare e manifestare il suo pensiero e la sua natura senza restrizione alcuna. Ma le stesse parole, liberate dal contesto religioso e applicate a ogni campo della vita, devono per forza aver avuto per la giovanissima Rita l'aspetto di un faro nella nebbia dei suoi anni di formazione. A volte semplici frasi ascoltate distrattamente in gioventù riescono a segnare lo svolgersi di una vita. Ripenso al libro di Michael Ende La Storia Infinita e alla scritta sul retro dell'Auryn, l'amuleto in grado di proteggere chi lo indossa, "Fa' ciò che vuoi" inteso come "Compi la tua vera volontà", una frase che silenziosamente mi ha accompagnata per tutta la vita senza che me ne accorgessi e che ha discretamente segnato il mio cammino. Ma non coscientemente bensì in modo latente come un istinto primordiale cui non si riesce a dare spiegazione ma si accetta e si contiene finché un giorno, per caso, mi tornò alla mente e mi tornò alla mente il libro da cui era tratta e ogni giorno ringrazio il suo autore per avermi indicato la via. "Fa' ciò che vuoi" è l'amuleto che mi protesse sempre e che mi protegge ancora, soprattutto dai cattivi pensieri :)

Nel terzo capitolo della parte quarta della sua autobiografia "Il miracolo del demone di Maxwell" viene narrato il suo rientro in Italia e l'inevitabile confronto con il contesto universitario e di ricerca statunitense, la carenza di fondi, la mancanza di considerazione, il servilismo dei sottoposti e l'anarchia di ricercatori e tecnici, così distante dal clima di collaborazione e gruppo che consentì alla loro attività di mantenersi a un livello molto superiore rispetto a quello dei colleghi. Di nuovo il gruppo, la Compagnia che per sei mesi dirigeva lei e sei mesi il collega Pietro Angeletti conosciuto alla Washington University con il quale si alternava anche oltre oceano. La sua fama e la fama del NGF attirarono laureandi e neolaureati che con spirito di volontariato contribuirono alla ricerca, senza paga se non la speranza di poter trascorrere un semestre con la ricercatrice oltre oceano, Mecca della ricerca scientifica.

In chiusura lascio le parole che Rita Levi-Montalcini dedica alla cerimonia del Premio Nobel che la vide protagonista. Parole dolci, fiabesche quasi, cariche di poesia, nelle quali si manifesta tutta la devozione e il rispetto per l'oggetto della ricerca cui ha dedicato la vita.

"Nella vigilia del Natale 1986, il NGF apparve di nuovo in pubblico sotto la luce dei riflettori, nel fulgore di un salone addobbato a festa alla presenza dei reali di Svezia, dei principi, di dame in festosi abiti di gala e gentiluomini in tuxedo. Avvolto in un mantello nero, il NGF s'inchinò al re e per un attimo abbassò la visiera che gli copriva il viso. Ci riconoscemmo nella frazione di pochi secondi, quando vidi che mi cercava tra la folla che lo applaudiva. Rialzò la visiera, e scomparve così come era apparso. Ritornò alla vita errabonda nelle foreste popolate dagli spiriti che di notte vagano sui laghi gelati del Nord dove ho trascorso tante ore solitarie della mia prima giovinezza? Ci rivedremo ancora, o in quell'attimo è stato esaudito il mio desiderio di tanti anni di incontrarlo e se ne perderanno definitivamente le tracce?"

La citazione dei laghi gelati del Nord è un ritorno alla sua infanzia e alla sua famiglia, un ricordo della sorella Anna, Nina, che voleva diventare una scrittrice come la sua beneamina Selma Lagerlöf, autrice di La saga di Gösta Berling di ambientazione scandinava che le sorelle Levi-Montalcini leggevano e rileggevano.

L'autobiografia si apre e si chiude in Scandinavia. Si apre con i sogni di bambina e si chiude con il successo di una grande donna di scienza.