domenica 10 dicembre 2017

Leggende del Palazzo del Governatore - Du' paaaaalle!

Ho come l’impressione di dover scrivere qualcosa di positivo su questa raccolta di racconti.

Non ci riesco.

Non nego che il fatto che si tratti di racconti non mi aiuta a trarne maggior piacere poiché ho un problema relazionale grosso con le opere brevi: non mi prendono, non mi acchiappano, non riesco a entrare. Al di sotto delle 150 – 200 pagine non riesco a entrare e dunque non riesco ad apprezzarli. Purtroppo buona parte della letteratura statunitense dell’Ottocento e del primo Novecento è costituita da opere brevi, penso a Henry James, a Poe e ovviamente Hawthorne.

Ora questo libro si è infilato nel carrello di Amazon mentre stavo sfruttando un copioso buono; portato a casa lo ho iniziato dopo qualche mese per intervallare altre letture più impegnative e per tutto il tempo della lettura continuavo a chiedermi “Quanto manca?????!!”

Ricapitolando i punti a sfavore in partenza:
- È un racconto
- È una raccolta di racconti brevissimi
- Tratta di fatti e persone di cui so molto molto poco e di cui in realtà mi importa assai meno
- L’autore è un puritano

Dunque queste le motivazioni che già a libro chiuso rendevano non invitante la lettura. A libro aperto ne ho trovate altre.

Old State House di Boston
sede del governo coloniale britannico dal 1713 al 1776
Insomma per me è meh!

Non dirò che queste leggende siano scontate sebbene i topos si possano ritrovare già nella letteratura gotica inglese a partire dalla metà del Settecento: il capo di vestiario maledetto (o benedetto), il ritratto ammonitore, la presenza infestante di qualche governante, sono temi che si ritrovano piacevolmente, rassicuranti quasi.

Quello che invece è proprio insopportabile è la pedanteria dell’autore. Pesantissimo!

Non solo è pedante ma è talmente didascalico da togliere tutto il piacere della lettura. Si prenda come esempio il passo tratto da “Il mantello di Lady Eleanore”: “La maledizione del cielo mi ha colpito, ché io mi sono rifiutata di chiamare l’uomo fratello, la donna sorella. Io mi sono avvolta nell’ORGOGLIO come in un MANTO”. Non solo l’autore toglie tutto il mistero alla metafora del mantello ma per essere ben sicuro di farsi capire dal lettore lo scrive pure in stampatello cosa che lascia trasparire a mio avviso una certa insicurezza, come una paura di non riuscire a essere sufficientemente bravo a far capire al lettore cosa ci sia dietro alla metafora del mantello.

Dunque pedante, didascalico e infine pesantemente moralista quando parlando della vecchia Esther Dudley scrive “Voi avete conservato come il più prezioso dei tesori tutto ciò che il tempo ha privato d’ogni valore: principi, sentimenti, atteggiamenti, costumi, regole di vita, che le nuove generazioni hanno gettato in un canto”. Grazie Nathaniel, ci mancava l’ennesima lezioncina di morale stile romanzo francese settecentesco.

Interessante sarebbe esplorare la concezione della donna che traspare da questi quattro racconti, argomento che dovrebbe essere approfondito con la lettura delle opere principali dell’autore come La Lettera Scarlatta e La Casa dei sette abbaini, letture che non sono davvero sicura di voler intraprendere perciò l’analisi approfondita la lascio volentieri a qualcun altro.

Tralasciando la figura della donna colpevole de Il Mantello negli altri tre racconti emerge la figura della donna saggia, intuitiva e moralmente lodevole: nella Mascherata è Miss Joliffe a svelare provocatoriamente il significato della processione: “se io fossi una ribelle (…) potrei immaginare che i fantasmi di questi governatori del passato fossero stati evocati per prendere parte al corteo funebre del potere regale nella Nuova Inghilterra”. Come detto precedentemente a proposito delle parole di Lady Eleanore anche qui Hawthorne svela la metafora togliendo ogni piacere al lettore. Non si fa, non si fa, non si fa!

Massacro di Boston,
inciso da Paul Revere 
Nel racconto del ritratto invece è Miss Vane che ci fa intuire il significato di quel dipinto così malmesso che tuttavia resta appeso in una delle sale del Palazzo del Governatore. Oltretutto, giusto per non farsi mancare nulla sotto il profilo dei clichés mi piace sottolineare come vengono descritti il dipinto e Miss Vane. Il dipinto: “un vecchio pezzo di tela annerito… dalla superficie nera e impenetrabile”, Miss Alice Vane: “Vestita tutta di bianco, una creatura pallida ed evanescente”, ci manca solo che Hawthorne sottolinei quanto siano in contrasto per completare la pedanteria. Miss Vane: “Quando chi governa non avverte il peso delle proprie responsabilità, non è male che qualcosa ricordi loro il significato che può avere la maledizione di un popolo”.

E a quanto pare Hawthorne non riteneva male neppure le continue spiegazioni dell’autore al lettore che personalmente trovo sgradevoli e noiose: non si può dire tutto al lettore: se scrivi per metafore, e le opere goticheggianti sono costellate tutte da ampie metafore, devi lasciare al lettore il piacere di comprenderle da solo, lasciarlo cullare nell’illusione di essere tra i pochi privilegiati che possono comprendere i significati nascosti nelle opere. Per questo piacciono libri come Il Codice Da Vinci: perché danno al lettore l’impressione di scrivere per un ristretto pubblico di iniziati, per questo invece viene detestato Il Pendolo di Foucault: perché è davvero scritto per un ristretto pubblico di iniziati.

sabato 9 dicembre 2017

I Longobardi di Diacono: trova la Provvidenza



La Storia dei Longobardi è costellata di richiami alla divina Provvidenza che si manifesta attraverso il popolo Longobardo come popolo eletto.

L'intera storia dei Longobardi può essere vista come allegoria della Provvidenza che per volere divino trasforma l'Italia da mediterranea a europea liberando anche il Papa dalla servitù temporale di Bisanzio per renderlo, in quanto vicario di Cristo in terra, strumento anch'egli della Provvidenza cosicché l'epopea dei Longobardi volgerà al termine quando un altro popolo si farà interprete della volontà divina grazie al Papa: i Franchi di Carlo Magno.

Il bigottismo di Diacono si rivela subito, sin dal racconto della battaglia con i Vandali che, vuole la leggenda della “Origo gentis Langobardorum”, fu decisa dall’intervento del dio Wotan: “Così Godan diede la vittoria ai Winili. Tutto ciò è degno di riso e da non considerare. Infatti la vittoria non viene attribuita alla forza degli uomini, ma è un dono del cielo.”

Cerco allora altri indizi di volere divino, un po’ come fosse un gioco sulla Settimana Enigmistica.

I Longobardi entrarono in Italia il lunedì di Pasqua. Mi sembra uno stratagemma abbastanza indicativo delle intenzioni dell’autore per sottolineare la sacralità di questo avvenimento.

Muore Papa beato Gregorio e Diacono narra che l’inverno fu assai rigido, le viti morirono, “era giusto che il mondo soffrisse”. Diacono scrive spesso di eventi come pestilenze e carestie ma qui per la prima volta sottolinea il collegamento con le vicende umane, la seconda volta sarà quando il monotelismo verrà condannato: “in quell’ora caddero fra il popolo ragnatele tanto grandi che tutti si stupirono; questo significò che il sudiciume della malvagità eretica era stato debellato.”

Croce di Agilulfo
Quando Grimoaldo usurpa il trono Pertarito, legittimo re, fugge e Diacono così ne parla: “Così Dio onnipotente con misericordiosa disposizione strappò un innocente alla morte e salvò dal commettere un’offesa un re che di cuore desiderava fare il bene” e poi, quando Pertarito si trova già in mare tra le Gallie e il regno dei Sassoni: “Già in alto mare, una voce fu sentita chiedere dalla spiaggia se Pertarito fosse su quella nave. Quando gli fu risposto che Pertarito era sulla nave, colui che gridava aggiunse: “Ditegli di tornare nella sua patria perché oggi è il terzo giorno che Grimoaldo è morto”. Udito ciò, Pertarito subito tornò indietro, raggiunse la riva senza tuttavia trovare la persona che gli aveva annunciato la morte di Grimoaldo; per questo ritenne che non fosse stato un uomo ma un messaggero divino.”

Allo stesso modo la volontà divina sembra manifestarsi nella giovinezza di Liutprando: a suo fratello Sigiprando verranno cavati gli occhi ma Liutprando verrà risparmiato e mandato in esilio con il padre “Non ci sono dubbi che ciò avvenne per volontà di Dio che lo preparava così al governo del regno”. Liutprando sarà l’ultimo re dei Longobardi di cui narrerà Diacono, l’ultimo grande re longobardo espressione della volontà divina che in seguito si manifesterà nelle opere dei re franchi.

E a sottolineare il tutto si ricordano le parole che Diacono mette in bocca a un eremita interrogato dall’imperatore Costantino: “Il popolo dei Longobardi non può essere vinto da nessuno perché una regina, venuta da un’altra terra, ha costruito sul suolo longobardo la basilica del beato Giovanni Battista e per questo il beato Giovanni intercede continuamente per la gente longobarda. Verrà il tempo in cui questo tempio sarà disprezzato e allora questo popolo perirà”.

Infine il disegno divino si manifesta nella storia dei Franchi: “In quel tempo nelle Gallie, poiché i re dei Franchi stavano degenerando dalla consueta forza e saggezza, coloro che sembravano essere più eminenti nel palazzo reale cominciarono ad amministrare il potere per il re e a comportarsi secondo il costume dei re; infatti era stato disposto dal cielo che alla loro progenie passasse il regno dei Franchi”. E’ così che Diacono predice il declino della dinastia dei Merovingi e l’ascesa dei Carolingi, La giustificazione di tale ascesa, che altri avrebbero narrato come usurpazione, rientra nel piano divino che vorrà poi l’Italia e la cristianità salvata da Carlo Magno, nipote di quel Carlo Martello che alla morte di Teodorico IV (merovingio) prese il potere nelle Gallie, il Carlo Martello salvatore della cristianità a Poitiers.

Con Liutprando il regno Longobardo giungerà all’apogeo e inizierà la sua caduta. Venuto a conoscenza dell’attacco dei Saraceni alla Sardegna re Liutprando mandò a prendere le spoglie di Sant’Agostino per ricomporle a Pavia dove tutt’ora si trovano. Nel frattempo Carlo Martello si era appena impossessato del trono dei Franchi e mandò il figlio Pipino da Liutprando affinché lo legittimasse con il rito dell’adozione simbolica.

Contemporaneamente dalla Spagna i Saraceni attaccano l’Aquitania e Carlo Martello invoca l’aiuto dell’amico longobardo Liutprando che accorre in Provenza e sbaraglia il nemico.

Carlo Martello e Liutprando saranno i salvatori della cristianità di fronte alla minaccia pagana venuta dal Mediterraneo ed è a mio parere proprio qui, in questo momento della legittimazione di Pipino attraverso Liutprando e nell’alleanza Liutprando/Carlo Martello che si verifica il passaggio della linfa della Provvidenza dal popolo longobardo a quello franco cosicché a essere ricordato per sempre nei libri di storia e nelle ballate come salvatore della cristianità sarà solo Carlo: la storia sembra essersi dimenticata di quel re longobardo che legittimò i carolingi, salvò sante spoglie e sbarrò la strada ai Saraceni.

Carlo Martello
In quel momento il progetto divino sembra eleggere un nuovo campione. La forza e l’innovazione del popolo longobardo risiedeva nel multiculturalismo e nel valore inalienabile di libertà che divenne con il tempo spinta autonomista dei vari ducati nel momento in cui non vi erano ormai più nemici da combattere sul suolo italiano portando velocemente il regno alla rovina. Se fosse stato altrimenti forse oggi la ballata di de André e Villaggio celebrerebbe un altro eroe e un’altra battaglia…


Liutprando tornava dalla guerra 
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor.
Al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del Sire vincitor.

Ritmicamente ci sarebbe stata pure bene 😺😺😺

La figura della donna longobarda in Paolo Diacono

Teodolinda sposa Agilulfo - Duomo di Monza - affresco Zavattari 1444
 E’ interessante esplorare l’importanza che la donna riveste all’interno del popolo longobardo attraverso la narrazione che ne fa Paolo Diacono, fondamentali infatti appaiono le figure femminili in più aspetti della storia di questo popolo per la funzione sacrale di collegamento con il divino, cattolico o pagano che sia, per l’apporto determinante nella cristianizzazione e nella romanizzazione e come strumento di legittimazione per i sovrani, come se in loro scorresse la linfa divina della Provvidenza. Bisogna infatti ricordare durante la lettura di tutta la Storia dei Longobardi di Diacono che l’autore legge nella storia del popolo longobardo un disegno della divina Provvidenza e così si devono vedere i singoli episodi e l’intera opera: manifestazioni della volontà divina nel mondo.

Il mito dell’origine dei Longobardi ha inizio con una donna: Gambara, madre di Aio e Ibor, insieme i tre intraprendono il viaggio. Diacono la descrive “acuta d’ingegno e provvida di consigli; nei momenti dubbi essi confidavano nel suo consiglio” ed è proprio lei, dei tre, a rivestire un ruolo fondamentale nella genesi del mito: quando infatti i Winili (originario nome dei Longobardi) si scontreranno con i Vandali sarà Gambara a chiedere e ottenere l’aiuto della dea Frea affinché interceda per loro con il marito Wotan e doni loro la vittoria. Questo episodio viene usualmente utilizzato per spiegare l’etimologia del nome Longobardi ma potrebbe anche spiegare il passaggio dei Longobardi dalla devozione a Frea/Freya, dea della fertilità a Wotan/Odino, dio dell’esercito e della guerra, passaggio che sarebbe stato in questo caso determinato da una donna: Gambara. Del resto, come si legge nell’opera di Diacono, saranno le donne a operare e velocizzare il cambiamento religioso dall’arianesimo al cattolicesimo.

Un altro episodio emblematico della funzione sacrale della donna come strumento della Provvidenza derivante dalla germanicità dei Longobardi si legge nel racconto che Diacono fa del viaggio di ritorno del suo avo Lopichis dalla prigionia in terra degli Avari all’Italia. Proprio quando è arrivato in terra italiana viene soccorso, sfamato e protetto da una donna assai anziana che gli indica infine la via da percorrere per tornare a casa.

La figura femminile principale della Storia è senza dubbio quella di Teodolinda, discendente dell’antica e nobile stirpe dei Leti, cattolica; di lei sappiamo che ebbe frequenti scambi epistolari con Papa Gregorio Magno e che impresse una forte accelerazione al processo di cattolicizzazione dei Longobardi infatti Adaloaldo, il figlio che Teodolinda ebbe da Agilulfo, fu il primo sovrano longobardo battezzato e fu battezzato nella basilica di San Giovanni a Monza, fatta edificare proprio dalla regina. Paolo Diacono descrive la basilica con queste parole in una conversazione tra l’imperatore bizantino Costante e un eremita: “Il popolo dei Longobardi non può essere vinto da nessuno perché una regina, venuta da un’altra terra, ha costruito sul suolo longobardo la basilica del beato Giovanni Battista e per questo il beato Giovanni intercede continuamente per la gente longobarda. Verrà il tempo in cui questo tempio sarà disprezzato e allora quel popolo perirà”.

Resta ora da affrontare l’argomento dell’importanza della donna nella legittimazione della sovranità.
Inizio da Wacone, re longobardo tra il 510 e il 540. Wacone usurpò il trono al cugino Idilchi. Per i Longobardi più importante della discendenza e del sangue reale era l’onore delle armi perciò, Wacone, avendo sconfitto Idilchi sul campo, poteva considerarsi al sicuro sul trono, tuttavia, per sottolineare la sua legittimità, prese in moglie tre donne figlie di sovrani esteri: una dal popolo dei Gepidi, una dai Turingi e una dagli Eruli un po’ come a voler dire: “Non sono re per nascita e sangue, mi sposo la figlia di un re e vengo automaticamente legittimato”.

Autari, re dal 584 al 590 divenne re per elezione dell’assemblea dei duchi e dei guerrieri ma per rafforzare le pretese di legittimità sposò Teodolinda, discendente di Wacone (vedi schema delle dinastie longobarde qui).

Teodolinda nelle
Cronache di Norimberga
Morto Autari la tradizione vuole che poiché Teodolinda era molto accetta ai Longobardi le permisero di mantenere il ruolo di regina invitandola a scegliersi uno sposo degno di poter governare il regno insieme a lei e Teodolinda scelse Agilulfo, cognato di Autari, che venne poi elevato al potere dall’assemblea dei Longobardi.

Personalmente fatico a credere pienamente a questa storia e come me anche qualche storico ha i suoi dubbi tanto da considerare la morte di Autari, probabilmente per avvelenamento, un assassinio. Mi viene più semplice pensare che Agilulfo, per diventare re, “convinse” Teodolinda a sposarlo.

Un destino molto simile ebbe la figlia di Teodolinda e Agilulfo Gundeperga, suo fratello morì, probabilmente avvelenato e l’assemblea dei duchi elesse l’ariano Arioaldo, Gundeperga gli fu data in moglie e, alla morte di Arioaldo, fu fatta sposare con il successore Rotari (quello dell’Editto).

Nonostante questi passaggi matrimoniali Teodolinda e Gundeperga non devono aver avuto una vita troppo terribile, sorte peggiore capitò sicuramente a Teodorada e Aurona, rispettivamente moglie e figlia di Ansprando, sconfitto sul campo da Ariperto che a seguito di ciò divenne re dei longobardi. Fuggito Ansprando, Teodorada e la figlia Aurona vennero catturate e mutilate con il taglio di naso e orecchie. A parte l’aspetto macabro della vicenda bisogna sottolineare che la mutilazione era una pratica bizantina per privare i pretendenti al trono dell’integrità fisica, indispensabile per regnare. Questa mutilazione potrebbe indicare quanto Ariperto temesse la regina e sua figlia e quanto anche le donne potessero costituire un ostacolo per le sue pretese al trono anche se Paolo Diacono la giustifica come punizione perché «si vantava con ambizione femminea che sarebbe diventata regina, fu deturpata nella bellezza del viso.»

Sull’importanza della donna nel mondo longobardo non abbiamo a disposizione altre fonti dirette per questo gli esempi che si possono riportare sono pochi ma Diacono pare metterli ben in evidenza

domenica 3 dicembre 2017

Storia dei Longobardi - Paolo Diacono

Storia dei Longobardi, edizione San Paolo con introduzione e note di Felice Bonalumi, Decisamente consigliata!

Può un libro di storia del VIII secolo scritto nell’VIII secolo essere considerato opera letteraria da leggere?
Oh sì!
Oh sì!
Oh sì!


La Historia Langobardorum di Paolo Diacono, oltre a essere il testo più completo che riporti la storia dei Longobardi dalle origini nel mito al regno di Liutprando, oltre a presentare interessanti digressioni geografiche, etniche e storiche che aiutano il lettore di ogni epoca a collocare nel giusto spazio temporale, geografico e politico gli eventi, è sicuramente un'opera di alta letteratura scritta da una penna dotata di concisione, scorrevolezza ed eleganza.

L’opera del resto è una saga, la grande saga del popolo longobardo dalle origini perdute nel mito sino all'ultimo re (in realtà il terz'ultimo ma per amor di letteratura facciamo finta che sia l'ultimo ok?). E in tempi come i nostri in cui si vive questo ritorno al medioevo con opere di consumo come Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco o Vikings, questo libro trova una nuova giovinezza nella riscoperta delle origini germaniche di una parte d’Italia risalendo a un popolo che è tutto nostro e solo nostro e che contribuì enormemente a spostare il baricentro dell’Italia dal Mediterraneo all’Europa continentale (perché l’ho spiegato qui).

Codice del XI s. della Origo gentis Langobardorum, Salerno
L'origine di questo popolo si perde in una nebbia mitica che vede partire dalla Scandinavia una madre con due figli e pochi giovani guerrieri al seguito, partono e subito si scontrano con i Vandali che vogliono sottometterli. Lottano e vincono per la libertà, tema che ricorre lungo tutta l'opera come valore fondamentale e principio irrinunciabile del popolo longobardo che combatterebbe, secondo Diacono, non per desiderio di bottini e gloria ma per difendere la propria libertà, lo stesso avo dell'autore, prigioniero degli Avari, fuggirà e tornerà in Italia tessendo così un parallelo tra la storia del popolo longobardo e la storia della famiglia di Diacono. Si nota, da parte dell'autore, un continuo giustificare le azioni offensive dei Longobardi come necessità per mantenere l’indipendenza, anche l’attacco di Agilulfo a Ravenna avrebbe avuto come motivazione il rapimento della figlia da parte dei Bizantini e poco importa se in seguito a ciò i Longobardi abbiano conquistato Cremona, Mantova e Brescello: secondo Diacono non combattono per conquista ma per difesa.

Un giochetto divertente che si può fare con questo libro è quello di trovare tutti i punti in cui l’aspetto guerriero del popolo Longobardo viene minimizzato se non addirittura taciuto sostituendo le cause che portano agli scontri con motivazioni alla Deus Vult!

E’ con estrema ironia che si leggono alcuni passi, un esempio su tutti quando Diacono parla del regno di Autari successivo all’epoca dei Duchi: “Non vi era violenza, non si tendevano insidie; nessuno angariava gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non vi erano furti, non rapine; ognuno andava dove desiderava sicuro e senza timore”, le violenze, le razzie, le uccisioni e confische che hanno caratterizzato la conquista longobarda dell’Italia vengono dall’autore confinane tutte nei dieci anni di regno dei duchi. Al lettore moderno resterà il compito di ricostruire in modo verosimile le vicende bilanciando il tono al limite dell’agiografico di Paolo Diacono con il biasimo lasciato dagli storici franchi e rinascimentali.

Le digressioni sono numerosissime ma mai prolisse e sempre piacevoli se non proprio gustose, sono curiosità su fenomeni naturali straordinari, leggende, fatti storici più o meno pertinenti con la narrazione, elegie, estratti di corrispondenze private che rendono vivi e reali personaggi storici come Teodolinda e Gregorio Magno. Devo confessare che al cospetto dell’elegia dedicata dall’autore al beato Benedetto non ho potuto fare a medo di pensare a Tolkien e alle sue opere in cui canti e ballate si fanno largo tra la prosa. Vi si leggono inoltre esempi di ottima letteratura come il viaggio del bisnonno di Paolo Diacono per tornare in Italia, anche questo tra mito e realtà, prima l'incontro con un lupo, poi un sogno rivelatore e infine il soccorso che gli giunge da un'anziana. Oppure la vicenda di Alboino e Rosmunda che è stata più volte ripresa in letteratura da Ruccellai, Alfieri e Sem Benelli, e si pensa che sia stata d’ispirazione per una canzone popolare lombarda cantata da artisti come Mia Martini, Sergio Endrigo e De Gregori.

L'opera inizia con un'ampia digressione sulle popolazioni germaniche del nord, fenomeni naturali nordici straordinari e poi percorre l'eroica migrazione dei Winili (antico nome dei Longobardi) dalla Scandinavia fino alle porte dell'Italia. Tra le righe del mito si legge il loro abbandono della divinità Freya, madre di fertilità per votarsi al dio Wotan, dio di eserciti e guerre, il loro assimilare popolazioni al passaggio liberando schiavi per farne guerrieri, la presenza di guerrieri mascherati (cinocefali), lotte con le Amazzoni... molte citazioni care agli appassionati di letteratura nordica.

Alle porte dell'Italia si apre una digressione che illustra il periodo storico e culturale, come a voler segnare una rottura nella narrazione tra quello che erano prima i Longobardi e ciò che diventeranno nella loro nuova patria.

Segue un lungo carme a San Benedetto e infine l'arrivo in Italia il lunedì di Pasqua, simbolo di rinascita, di primavera d’Italia.

Dopo l'arrivo in Italia l'autore si sofferma a illustrare le varie regioni d'Italia colorando il tutto con diverse etimologie fantasiose, molte delle quali riprese pari pari da Isidoro di Siviglia, compresa quella della parola Longobardi: “così chiamati a causa della loro lunga barba mai tagliata” (Etimologie XIX, II, 95).

La narrazione delle vicende storiche dei Longobardi continua in modo sempre più scorrevole, intervallata da digressioni storiche e leggende e si potrebbe compiere un’analisi più approfondita su vari aspetti della narrazione, per esempio analizzare le etimologie fantastiche, vere e proprie castronerie laddove per trovare l’origine e il significato di alcuni nomi si invertono, aggiungono o sottraggono consonanti, si comprano vocali e si gira la ruota come in preda a un furore etimologico derivato dal suo celebre predecessore Isidoro di Siviglia che un secolo prima scrisse un’enciclopedia che racchiudeva tutto ciò che era allora conosciuto e che si intitolava, appunto, “Etymologiae”. 

Insomma è un testo storico, è una saga, è un’enciclopedia, il tutto in meno di 200 pagine introduzione compresa. 
Accattatevillo! Leggetevillo!
Duecento pagine per diventare in una settimana al massimo esperti di storia del popolo longobardo.
A che pro non si sa ma sempre essere esperti di qualcosa nella vita che non esserlo affatto.

No?

Se poi volete seguirmi in questa follia longobarda rimando ad altri due post:
- La figura della donna longobarda in Paolo Diacono
- I Longobardi di Diacono: trova la Provvidenza

sabato 2 dicembre 2017

Storia dei Longobardi - Jorg Jarnut

Corona_ferrea,_monza Da: G. Pischel, ''Storia Universale dell'Arte'', Vol. 1, Mondadori, Verona 1966

Iniziato con questo libro l'intrippamento storico medievale 2017 che vede un programma di lettura abbastanza tosto ma fattibile per comprendere meglio l'evoluzione della letteratura romanza dal 1100 circa fino all'apoteosi rinascimentale che si concluderà con lo studio dell'Orlando Furioso con le sue "dame, i cavallier, l'arme, gli amori".
Perché fare questo? Sfida personale, percorso di lettura studiato per non annoiarmi, perché ne avevo voglia. La lista delle opere nel programma di lettura si trova qui ed è in costante aggiornamento.

Da dove cominciare però?

Quale poteva essere considerato il punto di rottura tra la storia classica mediterranea e quella moderna europea?

Lo spunto mi venne dalla notizia dell'inaugurazione, a Pavia, di una mostra sui Longobardi. Sapevo pochissimo di questo popolo, reminiscenze di studi superficiali, così approfondii un poco e mi decisi a iniziare da qui il cammino, proprio da un popolo che in realtà non lasciò tracce scritte, non produsse letteratura se non in latino, ma che impresse una svolta drastica alla storia d'Italia: a partire dall'arrivo dei Longobardi nella nostra penisola il lunedì di Pasqua del 568 d.C. e per i due secoli che li videro protagonisti nel nostro Paese i cambiamenti etnici, sociali ed economici furono così importanti che a mio giudizio si può far risalire a questo popolo l'inizio del Medioevo italiano.

Due sono le caratteristiche principali degne di nota:

  • Dopo un periodo di migrazione che affonda le sue radici nel mito per cause e scopi i Longobardi si stanziano in Italia e si tratta di una migrazione totale di guerrieri, famiglie, schiavi e bestiame che si fanno strada dal Nord Europa "riempiendo" i vuoti lasciati da altri popoli fino a giungere in Italia devastata dalla Guerra Gotica per stanziarvicisi definitivamente. Si può infatti dire che lo Stato longobardo nasca e muoia in Italia in due secoli, dal 568 al 774 d.C.
  • Continuamente, a seguito di spostamenti e battaglie, venivano arruolati schiavi che combattendo acquistavano la libertà per sé e per la propria discendenza così da caratterizzare il popolo longobardo di un profondo multiculturalismo che ne è stato al contempo forza motrice e rovina. 

Il saggio si dipana agilmente in 137 pagine, estremamente maneggevole dunque e di scorrevole lettura, la fonte principale è naturalmente la Historia Longobardorum di Paolo Diacono, epurata dalle infinite seppur preziosissime digressioni di cui è costituito che dilatano parecchio la narrazione. Altre fonti rilevanti sono il Libri Historiarum di Gregorio di Tours soprattutto per la parte relativa alle migrazioni e agli incontri/scontri con le altre popolazioni in Europa, il De Bello Gothico di Procopio di Cesarea riguardo i primi anni di insediamento in Italia) e il Liber Pontificalis, citato in modo assai ricorrente a partire dal regno di Liutprando a testimonianza di come e quanto la storia dei Longobardi si sia legata a quella della nascita dello Stato della Chiesa.


Si può dire infatti che proprio la presenza dei Longobardi in Italia, relegati i Bizantini a scarsissima influenza, sia stata di fondamentale importanza per l'autonomia di Roma e del Papa che sempre più divenne autorità riconosciuta in Europa al di sopra degli stessi sovrani, garante degli equilibri tra stati nonché potenza creatrice di re d'Europa o, nel caso dei Longobardi, distruttrice di re.

La storia dei Longobardi è un susseguirsi di colpi di scena e cambi di alleanze che hanno come scopo il mantenimento dell'unità del regno longobardo da una parte e la realizzazione di autonomie delle sue provincie dall'altra in un periodo storico in cui l'influenza di Bisanzio in Europa sta velocemente scemando, grazie soprattutto ai Longobardi che ne conquistano i territori, e due future potenze stanno nascendo:

  • la Repubblica Cristiana, così Gregorio Magno chiama il futuro stato della Chiesa in una lettera a Teodolinda moglie di Autari e Agiulfo
  • il regno dei Franchi di Carlo Magno

Sarà proprio Carlo Magno, chiamato da Papa Adriano I a porre fine al Regno dei Longobardi assumendo da allora il titolo di Rex Francorum et Langobardorum.


Ritornando alla descrizione del saggio di Jarnut, l'autore ha redatto un'opera davvero completa mettendo a confronto diverse fonti: quella longobarda per eccellenza di Paolo Diacono dalla quale prende le maggiori informazioni nonché la struttura dell'opera, quella papale e fonti franche, soppesa attentamente gli scritti degli uni e degli altri cercando e trovando un equilibrio sufficientemente realistico.
Come la Historia Langobardorum di Paolo Diacono si struttura in sei capitoli arrivando fino alla conquista di Carlo Magno che Diacono però non racconta poiché la sua narrazione si ferma all'apoteosi del regno longobardo con Liutprando. In ognuno dei sei capitoli, dopo una narrazione scorrevole delle vicende storiche, vengono analizzati aspetti importanti della cultura Longobarda e la sua evoluzione: il passaggio da popolazione di guerrieri in marcia a regno strutturato, da insieme di popoli con religioni diverse a stato cattolico, dalla tradizione prevalentemente orale dei miti delle origini e delle leggi all'elaborazione di un codice di leggi e di almeno due opere storiche sul popolo dei longobardi: quella di Paolo Diacono e la Historiola de Langobardorum Gestis di Secondo di Non, consigliere spirituale e politico della regina Teodolinda, che rappresenta la fonte primaria dello stesso Diacono fino alla storia de secolo VII e poi ancora analisi della progressiva romanicizzazione dei Longobardi.

Per approfondire il parallelo tra Diacono e Jarnut può essere utile questo specchietto, soprattutto per comprendere la differente importanza data dai due autori ai diversi capitoli della storia dei Longobardi.


Decisamente un testo ben fatto.
Cosa manca per essere perfetto? 
- Una lista dei sovrani longobardi (che però si può ritrovare su Wikipedia qui): ci sono momenti in cui si inizia a far fatica nel ricostruire i legami di parentela, soprattutto nella seconda metà del VII secolo.
In fondo al testo una follia: il tentativo di ricostruire la lista dei sovrani con relative figlianze e matrimoni da Ibor e Aio a Desiderio 😱😱😱. Alla fine viene riportato tra i figli di Desiderio anche Ermengarda, data in sposa a Carlo Magno e da lui ripudiata in seguito al cambio delle alleanze. Il nome Ermengarda è quello che ha consegnato alla storia il Manzoni, altri la citano come Desideria, in realtà quel matrimonio fu cancellato dalla storia e così il nome della donna.
- Un indice dei nomi che renda immediata la ricerca
- Una cartina che riassuma il tragitto del popolo longobardo dalla Scania all'Italia.






mercoledì 1 novembre 2017

Viaggio al termine della notte - Guernica in lettere



Un aggettivo per questa opera?

Rivoluzionaria!

La madre di tutta la letteratura disagiata del XX secolo, da Sartre a John Fante, a Bukowsky a Kerouak. Tutto quello che è venuto dopo è semplicemente... venuto dopo, questo romanzo (romanzo?) segna uno spartiacque imprescindibile per la narrativa del 1900 dal momento in cui descrive con infinita esattezza tutto il disagio che si prova nei confronti di un mondo diventato all'improvviso troppo veloce, troppo cinico, un mondo che non sente più Dio e in cui l'uomo è finalmente solo, abbandonato a se stesso di fronte alla vita.

Chi può ignora
Chi non riesce a ignorare ha due possibilità: la depressione o l'ironia.

Nel periodo tra le due guerre, periodo in cui tutto ha perso senso, tutto viene messo in discussione e il mezzo con cui Céline mette in discussione la staticità, il canone ormai spazzato via dalla Prima Guerra Mondiale è il linguaggio.

Dopo la Prima Guerra Mondiale linguistica ha assunto ormai un'importanza fondamentale dandosi regole scientifiche. Il linguaggio è tutto: svela e determina gli oggetti e se da un lato il l. sembrerebbe opera dell'uomo - è infatti l'uomo che parla - per un altro verso l'uomo è rimesso al linguaggio e può pensare e dire solo ciò che rientra in un certo orizzonte linguistico che trova predefinito. E' il linguaggio che parla (Heidegger). Ecco dunque che la realtà misera in cui il protagonista Bardamu vive e narra può essa stessa essere considerata come generata dal linguaggio in cui viene narrata, l'argot, il dialetto, quello delle realtà disagiate, della miseria, degli ideali mancati e dei valori capovolti e può essere descritto solo con un linguaggio stravolto.


Nelle monografie sul naturalismo francese si esaminano Zola, Flaubert, Huysmans, Gide, l'arte descrittiva, il ritratto frammentario di Flaubert, l'effetto del reale citato da Roland Barthes con le descrizioni Balzachiane poste all'inizio dell'opera per inquadrare immediatamente il contesto storico e sociale, le accumulazioni di aggettivi e oggetti, le descrizioni statiche e dinamiche ma sempre ineccepibili dal punto di vista sintattico e lessicale.


Qui si va oltre il realismo di Balzac, oltre il naturalismo di Flaubert e Zola: il senso della realtà viene reso, in Céline, sia dal contenuto che dal contenitore, sia dal messaggio che dal mezzo.

La narrazione di Céline non è per nulla casuale: la sua è stata una dedizione totale al linguaggio, al lessico e alla sintassi andando a caccia di espressioni colorite, gergali, bestemmie che poteva udire in bocca ad amici, gente di spettacolo, pazienti con l'attenzione che avrebbe potuto dedicargli un antropologo o un linguista.

La resa del reale operata con sospensioni, stravolgimenti della sintassi e dei periodi rende il lettore partecipe in prima persona di quanto accade, come se si svolgesse di fronte a lui o come se gli si stessero raccontando i fatti nel momento stesso in cui accadono.

Tono, stile e linguaggio rendono lo squallore di una condizione umana degradata e degradante. Non c'è dramma nell'eloquio, non c'è tragedia o riscatto, non c'è simpatia verso i personaggi del romanzo, non c'è paternalistico senso di protezione, la lingua utilizzata, argot arricchito e il ricorso a registri grotteschi emergono come denuncia, grido senza possibilità di rivincita o redenzione.

Il protagonista Bardamu passa da orrore a orrore, da miseria a miseria: è un ambiente chiuso, senza sbocchi all'esterno, come se un'invisibile cinta muraria separasse il mondo dei miserabili dal resto di Parigi, lasciare questi luoghi di miseria è possibile solo per giungere in altri parimenti miseri: il fronte, l'Africa coloniale, l'America operaia, l'ambulatorio parigino, il manicomio. Ogni volta pare si accenda una fievole luce di speranza a illuminare Bardamu e ogni volta è lo stesso protagonista a spegnerla, a fuggire dalla possibilità di una vita "normale".

E come può esserci vita normale dopo gli orrori che ha vissuto o visto? come può esserci vita normale se la degradazione lo avvolge come una coltre pesante cui è impossibile sottrarsi? La degradazione è ormai parte di lui, senza possibilità di salvezza.

L'atmosfera del romanzo si regge più sul linguaggio, le parole, la punteggiatura che su descrizioni di ambienti, persone o pensieri. Non c'è introduzione a personaggi o luoghi: il lettore viene immerso, affogato quasi nell'opera e nella vita di Bardamu dallo stesso mezzo descrittivo.

Il linguaggio viene sfruttato come espressione dell'emozione umana e sprofondando il gergo nella melma conferisce alla narrazione quel rinnovamento e quella freschezza che gli scrittori del primo Novecento avevano a lungo cercato per superare il canone o per discostarvisi.

L'emozione trasmessa da Céline attraverso la parola sorpassa ampiamente qualunque metodo descrittivo fatto di aggettivi e avverbi. È brutale come sono brutali le emozioni. La punteggiatura violentata con eccessi o assenze rende la narrazione più vicino al flusso di coscienza di quanto lo fosse la stessa scrittura di Joyce o Proust. La successione di frammenti separati da semplici virgole rimanda l'immagine di uno specchio rotto che riflette, frammentata e distorta, l'immagine che ha di fronte eppure questa immagine risulta più veritiera di quella riflessa da uno specchio integro.

Il Voyage è Guernica di Picasso, il ritratto della guerra, dell'orrore, del caos più fedele di quanto possa essere una fotografia perché oltre a ritrarre visivamente riesce a rendere anche l'aspetto psicologico, la devastazione dell'osservatore di fronte all'orrore.

"Après ça, rien que du feu et puis du bruit avec. Mais alors un de ces bruits comme on ne croirait jamais qu’il en existe. On en a eu tellement plein les yeux, les oreilles, le nez, la bouche, tout de suite, du bruit, que je croyais bien que c’était fini ; que j’étais devenu du feu et du bruit moi-même. 
(...) 
Quant au colonel, lui, je ne lui voulais pas de mal. Lui pourtant aussi il était mort. Je ne le vis plus, tout d’abord. C’est qu’il avait été déporté sur le taus, allongé sur le flanc par l’explosion et projeté jusque dans les bras du cavalier à pied, le messager, fini lui aussi. Ils s’embrassaient tous les deux pour le moment et pour toujours. mais le cavalier n’avait plus sa tête, rien qu’ une ouverture au-dessus du cou, avec du sang dedans qui mijotait en glouglous comme de la confiture dans la marmite. (...) Tant pis pour lui !

"Dopo, nient'altro che fuoco e poi rumore insieme. (...) Ci ha riempito a tal punto gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca, all'improvviso, il rumore, che ho creduto proprio che era finita, che ero diventato fuoco e rumore io stesso.
(...)
Quanto al Colonnello, a lui, non gli volevo del male. Anche lui però era morto. Non lo vidi più, di colpo. È che era stato dislocato sulla scarpata, allungato sul fianco dall'esplosione e proiettato fin nelle braccia del cavaliere a piedi, il messaggero, finito anche lui. Si abbracciavano tutti e due per il momento e per sempre, ma il cavaliere non aveva più la testa. Nient'altro che un'apertura sopra il collo, con del sangue dentro che borbottava con dei gluglù come la marmellata nella pentola. (...) Tanto peggio per lui!"

Questo riportato è a mio parere uno dei passi più indicativi del romanzo per come riesca a parlare per immagini materializzandole davanti agli occhi del lettore.

La traduzione a opera di Ernesto Ferrero nell'edizione Corbaccio è perfetta, per tutto il libro è perfetta, un lavoro immane per cercare di trasmettere tutto il narrato nel modo più fedele possibile.

C'è qualcosa di Picasso nel Voyage, non solo in questo passo ma in tutta l'opera. Ma c'è anche impressionismo nel modo in cui non viene mai data una descrizione dettagliata dei fatti quanto piuttosto una visione soggettiva e decisamente confusa da vicino che acquisisce nitidezza e significato a mano a mano che ci si allontana dal narrato, per questo il significato dell'opera non risiede tanto nei singoli episodi ma nella totalità del romanzo che, in una prima impressione, pare composto da una serie di racconti apparentemente slegati tra loro. 

Come osservò Gide a proposito del Voyage: "Non è la realtà quella raffigurata da Céline, è l'allucinazione a cui la realtà da vita".

Nel Voyage la forma è sostanza, la forma è essenza, diventa essa stessa narrato, non è più la lente trasparente attraverso la quale l'autore ci presenta la storia quanto piuttosto una lente deformante che ci fa percepire la visione dell'autore e del protagonista che è poi la visione emotiva dell'uomo di fronte alla disgregazione e devastazione del mondo moderno.

La lingua canonica, regimentata, strutturata dell'élite letteraria non è più sufficiente per riflettere la realtà all'indomani della Prima Guerra Mondiale. Come rendere la devastazione della guerra? Come rendere l'orrore del colonialismo in Africa, l'alienazione della catena di montaggio, la miseria dei quartieri popolari? Una lingua canonizzata che definisce le emozioni piuttosto che esprimerle risulterebbe fredda, asettica, più utile forse per un trattato sociale che non a una realistica visione.

Wittgenstein nel "Tractatus logicus-philosophicus" asserisce che il linguaggio è raffigurazione del mondo, immagine speculare non tanto degli elementi dell'immagine quanto della connessione tra gli elementi dell'immagine.

Nei primi anni del Novecento è tutto un ribollire di teorie sul linguaggio e sulla sua capacità di riflettere la realtà. In questo contesto di inserisce il Voyage con l'uso che viene fatto di vocabolario, sintassi, punteggiatura, intrinsecamente legati al mondo che raffigura: frammentato, enfatico, esploso e diventa esso elemento del mondo da raffigurare nella connessione con ciò che descrive, non più contenitore, non solo contenitore almeno, ma contenuto stesso della raffigurazione.

La connessione tra il mondo di miseria (sociale, economica e morale) raffigurato nel Voyage e l'argot, questo dialetto sociale e non geografico, può trovare supporto inoltre nell'ipotesi Sapir-Whorf sulla relatività linguistica che afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Al termine della sua vita il linguista Sapir arrivò a credere alla reciprocità di questa teoria ovvero che la lingua influenzi la cultura e vice versa.

Questa stessa reciprocità si ritrova nella lingua del Voyage in cui realtà e linguaggio sono talmente interconnessi da influenzarsi a vicenda.

Lo stesso George Bernard Shaw nel Pygmalion (1913) sottolinea come le differenze linguistiche siano fonte di discriminazioni: language is behaviour, il linguaggio è comportamento, se si parla in un certo modo ci si comporta di conseguenza e la proprietà di linguaggio (o la non proprietà di linguaggio) del nostro interlocutore ci trasmette di lui un'idea soggettiva che arriva a incidere più del suo aspetto esteriore, dell'abbigliamento o delle informazioni che di lui abbiamo.

Noi sappiamo che Bardamu ha studiato medicina e che diventerà medico, studi e professione che in un contesto sociale qualunque ci farebbero portare rispetto e invece l'idea che il lettore si costruisce di lui è deformata dal linguaggio con cui si esprime e che lo pone sullo stesso livello dei miserabili pazienti della provincia parigina.

Il solo aspetto negativo di questo tipo di narrazione è che può stupire solo una volta, solo con la prima opera di Céline che si legge, in seguito l'effetto meraviglia scema fino a diventare rumore di fondo.
Allo stesso tempo però, nel momento in cui il mezzo linguistico diventa rumore di fondo e si entra pienamente nello spirito della narrazione si riesce ad apprezzare tutta la célinitudine dell'opera, vedendo, sentendo, toccando con gli occhi, orecchie e mani di Bardamu.

domenica 29 ottobre 2017

Leggere i classici - un lavoro a ritroso perdendosi in chiocciole

Ricordo quando alle superiori per introdurre lo studio di una nuova opera il prof si soffermava sulla biografia dell'autore o. Un senso ce l'aveva anche se veniva spesso fatto in modo nozionistico in un susseguirsi di date, eventi, nomi apparentemente senza senso.

Nato il, morto il, sposò Tizia, visse a, fu amico di... e le teste ciondolavano, gli occhi si appannavano.

Ricordi il Manzoni? era figlio di Giulia Beccaria (figlia di quel Beccaria di Dei delitti e delle pene), Giulia si separò da Pietro Manzoni molto presto e Alessandro fu cresciuto dal padre e dalle sette zie zitelle (no, non single, allora erano proprio zitelle)in scuole religiose mentre la madre viveva a Parigi con Carlo Imbonati.

A diciannove anni raggiunge la madre a Parigi e nel suo circolo intellettuale viene a contatto con intellettuali antinapoleonici , gli Ideologi, che tra i vari insegnamenti lo esortano al massimo rigore storico anche in letteratura (come si vedrà ne I promessi sposi e altre opere a carattere storico come l'Adelchi) e a un profondo rigore morale, vicini al pensiero giansenista che vuole che solo la Grazia possa salvare l'Uomo la cui natura è corrotta.

L'educazione strettamente cattolica gli fa ripudiare la religione tanto da sposare civilmente in Municipio la calvinista Enrichetta Blondel. salvo poi annotare sul contratto matrimoniale che i loro figli dovranno essere educati alla religione cattolica. Proprio la nascita dei figli e il dover provvedere alla loro formazione lo farà riavvicinare alla religione ma attraverso il giansenismo che teorizzava che la storia fosse un ammasso irrazionale di fatti disciplinati solo dalla Provvidenza a un fine buono.

Ed eccola qui la Provvidenza de I promessi sposi spiegata in spiccioli.

Non conoscere le vite degli autori, il periodo storico e filosofico in cui si inseriscono è come mangiare Fonzies e non leccarsi le dita: si gode solo a metà.

Up & Down MC Escher
Prendiamo a esempio l'opera di Jane Austen: la maggior parte dei lettori apprezza Orgoglio e Pregiudizio perché è onestamente semplice e risulta fruibile e godibile per il suo contenuto anche con una conoscenza appena sufficiente del contesto storico e sociale dell'autrice. Della stessa autrice invece L'abbazia di Nothanger è tra i meno graditi, questo perché magari non lo si riesce a inserire pienamente nel contesto letterario dell'epoca, non si conosce molto la letteratura gotica e le sue relazioni con l'altra faccia del Settecento, quella del Classicismo della luce, della ragione, dell'industrializzazione. Questo eccesso di simmetria e ragione tendeva a nascondere e rinnegare l'altro aspetto della natura umana, quello oscuro, quello del dubbio, della paura e soprattutto se ne avvertiva oramai la lontananza, se non la contrapposizione, con ciò che si avvertiva come naturale. La lettura di un'opera come Northanger Abbey perde tutto il suo fascino se non relazionata con la lettura di romanzi gotici del tardo Settecento di cui è parodia.


Leggere un classico è un'azione al contrario, un continuo sviscerare, andare a ritroso, scavare, trovare filoni, seguirli per poi tornare in superficie così magari dal gotico inglese della seconda metà del XVIII secolo si può passare al Jekyll e Hyde di Stevenson o allo Sherlock di Doyle scoprendo che il dualismo esteriore Classicismo-Gotico viene riportato all'interno dell'uomo con la narrazione dello sdoppiamento tra bene e male che risiedono contemporaneamente e naturalmente nell'uomo, dai clichés del gotico fatto di architetture verticali, violenze e giovani donne vittime di uomini mostruosi alla realtà di un gotico sociale che anche attraverso l'educazione che relega la donna a un ruolo di secondo piano denunciato dalla Austen nei suoi scritti, donne tenute nell'ignoranza e limitate perché, a detta degli uomini, sono più facili prede delle passioni contrariamente agli uomini che anelano alla razionalità.

Il Classicismo si impone come guida laddove filosofia e credo incoraggiano all'assenza di passioni, l'apatia stoica viene spacciata come "liberazione" dalle passioni, atarassia, rinuncia classicista al futile, strettamente legate al concetto esasperato di Provvidenza: il "tutto è come deve essere, ogni evento è teso verso il bene (perciò perché crucciarsi?)" dei giansenisti manzoniani si fonde con il "tutto è bene nel migliore dei mondi possibili" che Voltaire mette in bocca a Candide ironizzando il pensiero di Leibnitz.

Ed ecco il pericolo nascosto dell'andare a ritroso: si finisce dentro una chiocciola come un gatto curioso che si infila nei buchi. Ci si ritrova incastrati in cunicoli sempre più stretti e sempre più correlati tra loro e attorcigliati al punto che si fa una gran fatica a ritrovare la strada di ritorno: da un parte le due estremità del filo, dall'altra questa enorme matassa di lana attorcigliata in cui rischiamo di rimanere avvolti.

Prendendo Manzoni da un lato e Jane Austen dall'altro come punti di partenza attraverso innumerevoli giri, cunicoli, strettoie, nodi, si può giungere al giansenismo e al concetto di Provvidenza passando per Voltaire, Leibnitz, l'architettura classicheggiante, una manciata di castelli e abbazie, doppelgänger...

Ancora la matassa però non si è sciolta... come faccio a districare il filo attorcigliato su se stesso?

Mi sono ormai posta come principio quello di trovare un legame tra il giansenismo manzoniano e l'anglicanesimo della Austen e in qualche modo devo trovarlo.

Di Credo in Credo allora trovo la connessione nella Provvidenza, dopotutto giansenismo manzoniano e provvidenza anglicana risentono entrambi della predeterminazione calvinista.

In Jane Austen l'happy ending è raramente il risultato dell'azione diretta delle sue eroine, la Provvidenza è infatti la forma in cui l'autore interviene.

In Mansfield Park nel momento esatto in cui era naturale che fosse e non una settimana prima Edmund cessò di interessarsi a Miss Crawford e divenne tanto ansioso di sposare Fanny quanto Fanny desiderava. Così. Perché era predeterminato altrove che così fosse.

In Persuasione la Austen esplora invece la distanza tra le azioni umane e gli ordini superiori della Provvidenza attraverso le opportunità perdute e gli incontri mancati. Tutto il libro è un susseguirsi di occasioni sfuggite fino alla soluzione finale dell'intreccio a opera della Provvidenza utilizzata come Deus ex machina.

Salacadula magicabula bibidibobidi BU!
Con la Provvidenza sistemiam quel che vuoi tu!

Sono tornata al problema della chiocciola. Parti da un punto e non sai mai dove arrivi e soprattutto se riuscirai a tornare indietro ripercorrendo la stessa strada o se ne troverai sempre di nuove. Come Pollicino dovrei lasciarmi sassolini dietro ma la mia natura gattesca prende il sopravvento e non resisto a infilare il muso in un nuovo buco.

E' la magia dei classici!

Ogni rilettura può portare a nuovi percorsi da seguire e ogni percorso si biforca e ancora, ancora e ancora...

E' la tana del Bianconiglio!

Certo meglio sarebbe e più ordinato seguire un filone per volta fino a esaurimento, meno stancante e probabilmente più utile alla finale comprensione delle opere.

Tutto questo sproloquio abbastanza senza senso per dire che non si finisce mai di leggere un classico, o piuttosto decidiamo noi quando è ora di smettere, di mettere la parola fine alla ricerca e può essere perché dopo tanti cunicoli ci si è persi (ma quanto è bello e desiderabile perdersi...) oppure perché si è trovato ciò che si cercava e a quel punto meglio tornare indietro possibilmente seguendo i sassolini che ci siamo lasciati alle spalle.

domenica 22 ottobre 2017

Un Uomo - Panagoulis, Sisifo, Prometeo, Cristo


Ci sono libri che lasciano così
pieni e svuotati
sazi e disossati
le braccia lungo il corpo
la testa reclinata all'indietro
le gambe molli
quasi a voler assaporare fino all'ultimo sorso quell'amaro che chiude il pasto.
Che è in realtà il pasto di qualcun altro, il bicchiere di qualcun altro dal quale ci siamo serviti con prepotenza e indiscrezione.

Per una settimana vivere la vita di un altro, pensare con la testa di un altro, amare l'uomo di un altro, provare le emozioni di un altro e poi trovarsi soli e stringere, toccare, guardare il libro che ha regalato ore piene, sature, gonfie.

A quel "Non piange!" un singhiozzo si strozza in gola,
un rigurgito quasi.
Lo caccio indietro.
Non posso, non posso appropriarmi anche del suo dolore dopo che mi ha già dato tutto, non posso rubarle anche le lacrime che non ha versato.
Lo stesso singhiozzo montato alla liberazione di Panagoulis, quando dalla nebbia di luce si staglia, nera, la figura della madre in una messa in scena che l'immaginazione di nessun regista potrebbe eguagliare.
E' Oriana.
La sua narrazione fotografica fatta di pochi dettagli che colgono l'essenza del messaggio, pochi aggettivi, ancora meno avverbi, frasi brevi, brevissime, a volte solo una parola e un punto esclamativo, un'invocazione e un punto esclamativo, una bestemmia e un punto esclamativo.

I dettagliati particolari della camera mortuaria, l'acciaio, il numero di matricola della pistola, estranianti, allontanano la memoria del dolore. Oriana si sofferma sull'acciaio, sulla lampadina che ciondola da un filo, metallo lucido, liscio, la ventata di ghiaccio. Distoglie l'attenzione dal dolore, dalle emozioni, dall'impalpabile per ricondurre tutto sul rassicurante piano di colori, oggetti, qualcosa di definito, determinato.

"Non piange!"
E tu vorresti vederla piangere, strapparsi i capelli, urlare come in una vera tragedia greca ma lei "Non piange".

Mantenere il controllo.
Mantenere il controllo.
Focalizzarsi sui dettagli, l'acciaio, la lampadina, il gelo e poi al funerale le pietre preziose, gardenie, garofani, rose.
La folla al funerale come scudo, come arma.
La costruzione della consapevolezza che fosse tutto deciso, tutto programmato e nel libro ricorrono i presagi, veri o finti, l'aglio, pagina ventitré, il sogno del masso sulla montagna, due volte estate, due volte autunno, santi da pregare e santi da ignorare, il 5 maggio, il 1° maggio.
L'uomo è superstizioso, crede ai presagi e piega la propria vita per assecondarli, dolcemente, impercettibilmente si piega come fanno le spighe di grano alla brezza.

"Dominio:  E i divini ti chiamano Prometeo, il Presago: illusione d'un nome! Di "presagi" proprio tu hai bisogno, del trucco, come sgusciare da questo cerchio ingegnoso." Prometeo Incatenato - Eschilo
E' proprio dei tragici greci lavorare sull'etimo dei nomi. Nomen Omen.
"Alessandro", protettore degli uomini

Alekos è il Sisifo di Camus nel riconoscimento di quel particolare stato d'animo in cui il vuoto diviene eloquente, in cui la catena dei gesti quotidiani viene interrotta e il cuore cerca invano l'anello che lo ricongiunga, che lo riunisca al gregge, sperando forse di portare il gregge dalla sua parte.

"L'atteggiamento dell'uomo assurdo non è quello del suicida ma del suo contrario: il condannato a morte. Egli ha in mano la libertà assurda, la libertà da ogni spiegazione, da ogni obiettivo"... "La libertà assurda, la libertà del domani, la non speranza, la mancanza di obiettivi. Bruciare fin quando c'è legna". Albert Camus - Lo Straniero

Panagoulis vive come un condannato a morte, nei suoi pensieri non c'è domani, solo la consapevolezza di non poter invecchiare, non aver nipoti, non scrivere quel libro.

"Lo scriverai tu per me, promettilo"
"Lo prometto"
"Io non sarò mai vecchio"... "morirò molto prima. E allora sì che dovrai amarmi per sempre"

Condannato a morte dopo il fallito attentato a Papadopoulos, la pena gli viene commutata in ergastolo ed è precisamente da quel momento che inizia a vivere come un condannato a morte, libero dal domani, libero dal ricatto di un futuro sicuro, dalle promesse.


Ciò che era inevitabile è stato solo rimandato.

"Accetto fin d'ora questa condanna. Perché il canto del cigno di un vero combattente è il rantolo che egli emette colpito dal plotone di esecuzione!"

Alekos è felice di questa condanna, orgoglioso, e trascorrerà il tempo che gli rimane a inseguirla nel tentativo di riacciuffarla.

Alekos è Prometeo che donò il fuoco agli uomini e Zeus per punirlo lo incatenò a un masso esposto alle intemperie con un'aquila che gli squarcia il petto e gli dilania il fegato.

"Sento una forza assurda premermi lo stomaco e il collo e il petto e il cuore rientrarmi dentro quasi si rompessero insieme, scoppiando, e non distinguo più nulla. Chiudo gli occhi e..."

"In verità se Prometeo ritornasse, gli uomini di oggi farebbero come gli dèi allora: lo incatenerebbero alla roccia nel nome stesso di quell'umanesimo di cui è il primo simbolo. Le voci nemiche che insulterebbero allora il vinto sarebbero le stesse che risuonano nella tragedia eschiliana: quelle della Forza e della Violenza". Prometeo agli inferi - Albert Camus

"Nel mio avvenire non è tracciata sicura frontiera al dolore se prima Zeus non crolla dal suo potere di despota" Prometeo Incatenato - Eschilo

Alekos come Cristo, l'uomo che vuole salvare il mondo e può farlo solo dalla croce.


Oriana come Maria vuole salvare Cristo e si ritroverà a schiacciare la serpe a piedi nudi. 
Cristo non può salvare nessuno da vivo e non può essere salvato perché alla fine il popolo continuerà a scegliere Papandreu Barabba, il candidato per cui si spese la benpensante politica italiana, l'uomo inquadrato in un partito, definito, rassicurante così come il ladrone Barabba era rassicurante se comparato a Cristo: Barabba prendeva oggetti, Cristo anime.
E Pilato continuerà a lavarsene le mani purché tutto si risolva nell'assenza di disordini.

La croce
Il rogo
L'automobile
Strumenti di morte assurgono a simbolo di espiazione e redenzione.
L'ordalia delle quattro ruote che non risparmiò Panagoulis, non risparmiò Falcone, non risparmia oggi Dafne Caruana Galizia.
Documenti, agendine, siti internet.
Dittatura, mafia, soldi.
Atene, Capaci, Malta
1976, 1992, 2017

2017!

Letture consigliate:
Un Uomo - Oriana Fallaci
Il mito di Sisifo - Albert Camus
Lo Straniero - Albert Camus
L'Estate - Albert Camus
Prometeo Incatenato - Eschilo


L'Idiota - F.Dostoevskij

Musica consigliata: Sally - Vasco Rossi

Dipinto: Cristo Morto - Hans Holbein il Giovane
"«Quel quadro!», esclamò il principe, colpito da un’idea subitanea. «Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede».
«E infatti si perde», confermò Rogožin." 
L'Idiota - F. Dostoevskij