domenica 4 dicembre 2016

L'Europa, le Olimpiadi, John Nash e il vino francese



Che cosa hanno in comune il medagliere olimpico, il PIL, la teoria dell'equilibrio di Nash e il vino francese? 
Apparentemente nulla.
Sono però gli ingredienti di un minestrone interdisciplinare in cui mi sono tuffata un pomeriggio sonnacchioso di dicembre. 
Era il 1997 o il 1998 e l'ennesima riforma della scuola promuoveva l'interdisciplinarietà, i collegamenti, a quell'epoca vigeva il motto "non ragionare per compartimenti stagni". Iniziai allora e non smisi mai più, da allora ogni argomento trova eco o radice in altri temi, in altri luoghi del pensiero: la letteratura nella filosofia, la filosofia nella storia, la storia nell'attualità, l'attualità nella sociologia, la sociologia nella linguistica e così via...

L'idea di fondo che mi circolava in testa da un po' era di comprendere perché l'idea di un'Europa Unita fosse così importante per me. Tralasciando per un momento le questioni personali, gli anni d'infanzia vissuti in Belgio, le suggestioni positive che aveva lasciato in me quella sorta di Arcadia internazionale vissuta nella pre-adolescenza, volevo strutturare la teoria della necessità e dell'utilità dell'Europa.

Ma da dove iniziare? I pipponi sui Guelfi e Ghibellini o su Carlo V me li tengo per me, cercavo un'argomentazione più concreta, qualche numero su cui speculare e sono partita dal medagliere olimpico.
Cosa succederebbe se le nazionali europee gareggiassero non sotto le singole bandiere di Francia, Germania, Italia e così via ma sotto un'unica bandiera europea? A che posto ci piazzeremmo nel medagliere?
Lascio volontariamente fuori la Gran Bretagna che con la vittoria della Brexit si è estromessa da sola dal contesto europeo e prendo in considerazione per sintesi solo Italia, Francia e Germania che sono le sole nazionali sempre classificate nei primi 10.
Pechino 2008USA 110 medaglie, Cina 100,  Russia 70, Ita-Ger-Fra 109
Londra 2012: USA 104, Cina 89, Russia 80, Ita-Ger-Fra 106
Rio 2016: USA 121, Cina 70, Russia 56 (senza l'atletica), Ita-Ger-Fra 112

Ok, quella sullo sport può essere considerata un'argomentazione superficiale e allora passo a cercare i dati sul PIL 2016 (fonte FMI)
USA: 18.143.712 $
Cina: 10.991.571 $
Zona Euro: 13.478.334 $
EU: 19.205.364 $

Prendendo tra tanti due fattori: uno sociale (lo sport) e uno economico (il PIL) sorgono spontanee considerazioni sull'inutilità tafazziana delle divisioni, sulla miopia delle politiche autonomiste a discapito di una visione più ampia e prospettica. Abbiamo una sola moneta ma non abbiamo nessuna visione comunitaria per quanto riguarda l'economia, la politica estera, la politica militare o la diplomazia. 

L'idea di Europa, ci ricorda Chabod, nasce già nell'antica Grecia con Isocrate che parla di Europa, non Grecia, contrapposta all'Asia; passa attraverso Dante e Boccaccio, trova baluardo in Erasmo da Rotterdam, si definisce con Voltaire  

“…come una specie di grande repubblica, divisa in vari stati... ma tutti collegati gli uni con gli altri, tutti con ugual fondamento religioso, anche se divisi in varie sette, tutti con gli stessi principi di diritto pubblico e di politica, sconosciuti in altre parti del mondo.”

e con Metternich

Ciò che caratterizza il mondo moderno, ciò che lo distingue essenzialmente dal mondo antico, è la tendenza degli Stati ad avvicinarsi gli uni agli altri ed a formare una sorta di corpo sociale riposante sulla medesima base della grande società umana formatasi in seno al Cristianesimo… La società moderna, invece, ci mostra l’applicazione del principio della solidarietà e dell’equilibrio fra gli Stati ci offre lo spettacolo degli sforzi concordi di parecchi Stati per opporsi alla preponderanza di uno solo, per arrestare l’estendersi della sua influenza, e forzarlo a rientrare nel diritto comune. Il ristabilimento dei rapporti internazionali sulla base della reciprocità, sotto la garanzia del riconoscimento dei diritti acquisiti e del rispetto alla fede giurata, costituisce ai nostri giorni l’essenza della politica, di cui la diplomazia non è che la quotidiana applicazione. Fra le due ci è, secondo me, la stessa differenza che c’è fra la scienza e l’arte.” (Memorie) 

Divide et impera, il motto latino preferito dai tiranni europei della storia ci si sta ritorcendo contro e nemmeno ce ne accorgiamo, siamo divisi, piccoli, gretti, ognuno guarda il suo piccolo orticello e lancia strali invidiosi al suo prossimo, l'Idea di Europa fondata sulla cultura è stata soppiantata da un'Europa meramente finanziaria, una vacca da mungere, una banca... non è questo che avevano in mente i suoi padri fondatori: la moneta unica doveva essere il mezzo per agevolare gli scambi economici e culturali tra i paesi, l'ariete per sfondare le barriere nazionali e permettere il permearsi delle diverse culture al fine di ottenere una visione condivisa degli obiettivi.

Divide et impera. Lo sapevano bene i tiranni e gli usurpatori, i Romani, l'Impero Britannico... ce ne siamo dimenticati noi.
Prima la crisi finanziaria ed economica, poi le guerre ai confini hanno portato un attacco a tenaglia alla neonata Europa, fiaccandone lo spirito originario, insediando il germe della paura, del sospetto, riportando in auge i nazionalismi mai del tutto sopiti, si è arrivati a sospendere la Convenzione di Schengen per motivi di immigrazione perché ancora dopo anni non si trova un accordo sulla gestione dell'immigrazione che da emergenza è diventata normalità.
Divide et impera. Ma chi impera?

Ci siamo dimenticati della teoria dell'equilibrio di un certo John Nash

"Un gioco può essere descritto in termini di strategie che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l'equilibrio c'è quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare occorre agire insieme."

"unilateralmente possiamo solo evitare il peggio, mentre per raggiungere il meglio abbiamo bisogno di cooperazione" ("John Nash genio e follia", intervista di Piergiorgio Odifreddi a Nash apparsa su L'Espresso nel 2008)

Il comportamento dei singoli porta all'equilibrio, alla non evoluzione, alla stagnazione. La vera evoluzione si può avere solo con la cooperazione.

Ma non solo!
Andiamo oltre e prendiamo in considerazione il Dilemma del Prigioniero di Albert Tucker (altro matematico): due prigionieri separati vengono messi davanti a delle condizioni: 
1 - se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l'altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
2 - se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni.

3 - se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi.

In questo caso la scelta migliore per la collettività (i due prigionieri) è quella di rinunciare ciascuno a un pezzetto della propria libertà (un anno di carcere) e cavarsela con poco piuttosto che confessare entrambi e beccarsi sei anni di reclusione ciascuno... Non possono però averne la certezza: la scelta è al buio. L'unica cosa che possono fare i due prigionieri è sperare che entrambi prenderanno la scelta migliore per la collettività poiché se entrambi possono essere tentati di confessare per evitare la pena (sperando che l'altro non confessi),  la confessione di entrambi li porterebbe a dover subire una pena di 6 anni ciascuno.

Il problema di questa Europa non è che ci siamo privati di troppa parte di autonomia ma che non ce ne siamo privati abbastanza, che non abbiamo devoluto abbastanza, che ci facciamo la faccina bellina e cortese ai summit europei per poi nascondere pugnali dietro la schiena appena mettiamo il naso fuori da casa Europa e la guerra in Libia voluta da Francia e Gran Bretagna è un esempio di come iniziative apparentemente positive per il singolo (economiche, non certo umanitarie) si rivelino in realtà negative per la totalità del gruppo, anche per gli stessi che hanno preso l'iniziativa: il terrorismo che ha colpito la Francia e il boom dell'immigrazione hanno colpito e stanno colpendo principalmente proprio quei paesi che hanno iniziato i bombardamenti. Se alle iniziative particolari aggiungiamo la scarsità di comunicazione tra le varie intelligence (ovvero la mancanza di cooperazione per il fine comune della sicurezza) mi viene da pensare che è un miracolo che in Europa ci siano stati così pochi attentati.

La libertà non è un fine ma un mezzo, una carta da giocare o tenere in serbo al fine di ottenere vantaggi concreti e duraturi per la collettività.
All'epoca delle guerre persiane le polis greche, alcune in guerra tra loro, decisero di stipulare un'alleanza in funzione anti-persiana mandando all'aria i tentativi di Serse di sottomettere singolarmente ogni singola polis. Serse aveva un'esercito dieci volte più numeroso di quello che potevano mettere in campo i Greci.
Ma i Greci avevano la libertà.
La libertà di unirsi per un fine comune.

L'esempio del vino francese in Cina
Il vino, si sa, in Francia è cosa seria così, vista l'impossibilità per i singoli produttori francesi di penetrare il mercato cinese, il governo francese finanziò nel 2012 un progetto triennale di promozione del vino nazionale in Cina favorendo la creazione di un ambiente ricettivo nel paese d'Oriente attraverso una rete di informazioni, semplificazioni burocratiche, marketing e grande distribuzione. Risultato? Le importazioni di vino francese sono schizzate al 47% con bottiglie i cui prezzi vanno dai 30 ai 10.000$. 
Non solo, a dieci anni dall'entrata in vigore del progetto stanno confluendo in Francia capitali cinesi destinati alla viticultura.

Uniti si vince, tutti. Uniti si ha l'opportunità di apportare cambiamenti significativi per tutta la collettività.

... e se non vi fidate di me fidatevi almeno della matematica.

venerdì 2 dicembre 2016

Un tuffo in libreria - a volte è meglio non sapere



Qualche giorno fa sono entrata in libreria per fare un regalo, erano anni che non ci mettevo piede per un fioretto autoimposto, un misto di sadomasochismo intellettuale e ristrettezze economiche. L'ultima volta che ero entrata in una libreria era circa quattro anni prima.
All'ingresso le idee erano chiare: entrare, chiedere, confermare l'acquisto e mentre la commessa faceva il pacchetto curiosare tra gli scaffali.
Il tempo era pochissimo, trenta minuti per fare tutto quindi la possibilità di cadere in tentazione era pressoché nulla. Avevo già ripreso da qualche mese a comprare nuovi libri online (una storia che racconterò in un altro post) ma un conto è andarli a cercare a uno a uno su Amazon a colpo sicuro, un altro è trovarsi nel paese di Bengodi....
Dunque entro, chiedo, passo alla fase 2 del mio piano e... 

Dove cazzo sono finiti i libri??? 

E per libri non intendo quegli oggetti composti da carta scritta rilegati in copertine accattivanti ma I LIBRI, i Classici, Balzac, Shakespeare, Manzoni... dove sono finiti tutti?
L'ingresso era rimasto quello di sempre e l'ho saltato a piè pari, già sapevo che vi avrei trovato solo junk-books; l'obiettivo era il reparto appena dietro, quello dei classici, tutti carini e ordinati alfabeticamente per autore, con le loro costine nere per i Classici e Classici Storia, rosse per i Classici Moderni Mondadori, i Classici Blu della Bur, i tascabili bianchi Einaudi, i grigi, verdi e rossi Garzanti dalle copertine semplici e discrete e i piccoli Adelphi, così bellini, così silenziosi...

Niente!

Tra gli scaffali si affacciavano timidi un po' di Feltrinelli sottili, Baricco, Benni, Allende... qualche Einaudi qua e là, Eco in bella vista che fa sempre la sua porca figura, un Fowles, due Alice Munro, il tutto in massimo quattro metri quadrati di scaffale, tutto attorno era invece un fiorire di letture mediocri racchiuse in sovracopertine ammiccanti e chiassose che riportavano foto di bellissimi protagonisti hollywoodiani in copertina.
Mi è tornata alla memoria La Storia Infinita di Ende, il Nulla che cinge d'assedio la torre d'avorio e come la torre d'avorio dell'imperatrice bambina forse un giorno anche questo piccolo scaffale verrà distrutto... nel migliore dei casi traslocato.
Lo sguardo si dirige un metro più a sinistra: in un angolino largo trenta centimetri riposano gli Adelfi, piccoli, semplici, discreti. Borges mi strizza l'occhio e così fa Giambattista Basile nell'edizione Arcadia eBook. Solo quando li prendo in mano per sfogliarli realizzo che sono... sigillati.

Sigillati???

Ma che è? un peep show? Guardare e non toccare? Se ti piace la copertina e  le quattro righe riportate in quarta bene altrimenti ti fotti. Come fai a scegliere tra diverse edizioni se non le puoi sfogliare? Se non puoi vedere chi ha scritto la prefazione, l'introduzione, la presenza o meno di un apparato note... come fai a decidere? E nel caso di un saggio come fai a comprarlo a scatola chiusa se non puoi vedere neanche l'indice?
Ma davvero allora è meglio comprare online! Almeno in molti casi hai la possibilità di sfogliare l'anteprima su Google Books e leggere le recensioni.
Giuro che non mi era mai capitato di vedere  libri sigillati in libreria. Ho avuto come l'impressione che non si dovessero rovinare... magari per poterli restituire senza danno al distributore... tanto chi vuoi che li compri
Prendo Lo Cunto de li Cunti (a scatola chiusa s'intende), lo poso accanto alla cassa e finalmente trovo il coraggio di chiedere alla commessa dove fossero i libri e se nelle stanze al piano di sopra ci fosse altro di letteratura.
No - risponde con una smorfia - al piano di sopra per lo più sono saggi.
La sua faccia a metà tra il disgusto e la noia non mi convince, ho la sensazione che mi abbia dato una risposta a caso, totalmente ignara in realtà di cosa ci sia di sopra. Al primo piano tanto ci devo andare comunque, almeno per vedere se la sezione Storia è ancora lì.

Ed eccoli gli amici miei! Traslocati al secondo piano ma ci sono E NON MI SEMBRANO SAGGI PORCAVACCA!!! (un po' incazzati sì però)
Una parete di tre metri per due circa ma me la sono fatta bastare. 

Tre scaffali.

Primo scaffale: libri di poesia, ok, approvata.
Secondo scaffale: inizia il delirio. In alto in alto le prime due mensole sono ricoperte di testi teatrali, due metri lineari in cui hanno schiaffato una miscellanea di Shakespeare, Goldoni, Molière tenuti insieme solo dall'ordine alfabetico dell'autore. E' teatro? Bene, lo schiaffiamo in alto tanto non se lo fila nessuno. 
I due ripiani più sotto dovrebbero contenere testi classici dove per classici il libraio deve aver deciso latini e greci... tutti insieme ovviamente, ordinati sempre alfabeticamente per autore, tutto quasi bene se non avessi trovato il Tasso tra Tacito e Tucidide, più in basso una sorta di anarchia tutta italiana priva di ordine logico tra Dante, Manzoni, Verga, un gran minestrone un po' in piedi un po' sdraiato alla rinfusa.
Il terzo metro onestamente non l'ho capito, c'erano autori italiani ma anche saggi di vario genere sulla letteratura, mi ha incuriosita uno su Pasolini ma c'era talmente tanta confusione lì attorno che non ho approfondito.
Consiglio per i librai: il lettore vuole ordine!
In quel marasma sono riuscita a trovare un'edizione superstite de Lo Cunto de li Cunti di Basile e l'ho messo da parte, un Garzanti, buona introduzione, biografia dell'autore, indici dei nomi e soprattutto non sigillato. Poi mi ha strizzato l'occhio Anabasi di Senofonte, edizione UTET con testo a fronte, una garanzia, 200 pagine di introduzione su 700, praticamente libro + saggio: due libri al prezzo di meno di uno.

19.30, la commessa spegne la musica in sottofondo, arraffo i miei due nuovi amici, pago ed esco.

Di pessimo umore.

Non ero mai uscita di pessimo umore da una libreria e non so se rientrerò mai più in quella... no non è vero, sento già la voglia di ritornarci per frugare nella stanza al primo piano e trovare magari qualcos'altro di abbandonato che abbia bisogno di essere salvato. Mi fa sentire come una sorta di Schindler, salvare i libri dalla dimenticanza, libri che fino a pochi anni fa si trovavano in bella vista sugli scaffali principali e adesso sono relegati al piano superiore di una libreria di paese.

Che sono una snob già lo so, un Gattopardo, nostalgico dell'Ancien Régime e delle conversazioni su Hermann Hesse e Anna Karenina, che si commuove ripensando alle trecce di Ermengarda, sparse sull'affannoso petto e adesso si ritrova a disquisire da solo sulla differenza tra bello e sublime... Me lo faccio bastare, dopotutto anche parlando con me stessa riesco a trovarmi in disaccordo.

sabato 12 novembre 2016

Psicologia delle folle - Accattatevillo!



Per soli 7,50€ su Ibs si ha la possibilità di portarsi a casa un must read per comprendere i meccanismi usati dagli arringatori di popolo per trascinare le folle, accattivarsi il loro voto e la loro fedeltà. Il testo è del 1895 ma è valido, validissimo anche oggi e se spiega i totalitarismi del Novecento è in grado di spiegare anche quei fenomeni di anti-politica che sembrano travolgere la realtà politica mondiale: Berlusconi, Renzi, Salvini, Le Pen, Grillo, Brexit... e oggi Trump.
Si sa per certo che il libro fu letto da Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini, non si sa se invece i sopracitati lo posseggano nelle loro biblioteche ma la Psicologia delle folle di Le Bon ha talmente influenzato l'ars retorica del passato che si può pensare che anche se i politici odierni non hanno letto il libro, la teoria che ne sta dietro faccia ormai parte inconsciamente del bagaglio del politico moderno, divorata, masticata, digerita dalle scuole di politica del passato e infine arrivata a permearle.

citando
"L'insieme dei caratteri comuni imposti dall'ambiente e l'ereditarietà in tutti gli individui di un popolo costituisce l'anima di questo popolo. Ma quando un certo numero di uomini si trova per caso riunito, la osservazione dimostra che, dal solo fatto di questa vicinanza, possono nascere caratteri psicologici nuovi i quali si sovrappongono a quelli della razza, e talvolta differendone profondamente. Il loro insieme costituisce un'anima collettiva potente, ma momentanea."

La folla è dominata dall'inconscio, modelli,  pensieri, emozioni, istinti di cui il soggetto non è consapevole, è la scomparsa della personalità, della vita cerebrale e predomina l'attività nervosa, l'intelligenza si abbassa ed emergono i sentimenti, sentimenti che possono essere migliori o peggiori a seconda del fine dell'oratore, la folla può essere eroica o criminale.

Citando ancora:
"La leggerezza di certi discorsi fatti da questi dittatori che hanno esercitato un'influenza enorme sulle folle, talvolta stupisce alla lettura; ma si dimentica che essi furono fatti per trascinare le folle, e non per essere letti da filosofi. L'oratore si mette in intima comunione con la folla e sa evocare le immagini che la seducono. Le affermazioni sono fatte in modo così autoritario, che vengono accettate a causa del tono che le accompagna. E normalmente queste suggestioni non sono accompagnate da argomenti o prove logiche, esse sono cacciate dentro quali verità lampanti, e sono cristallizzate in epigrammi ed assiomi, che vengono accettati per veri, in conseguenza della apparente arguzia, senza che nessuno pensi ad analizzarli. I sofismi politici e le spiegazioni usuali, appartengono a questa classe."
...
"La moltitudine ascolta sempre l'uomo dotato di volontà forte. Gli individui riuniti in folla, perdendo ogni volontà, si volgono istintivamente verso chi ne possiede una."

Discorsi fatti per trascinare le folle, non per essere letti da filosofi, non per essere sottoposti al vaglio del fact checking, non per essere analizzati nelle loro strutture retoriche. Mi è capitato di recente di analizzare alcuni discorsi di un noto politico italiano scoprendo facilmente che tutto il nocciolo della sua ars orandi risiede nella triplice ripetizione del concetto in tre modi differenti: una volta per dritto, una volta a rovescio e una volta in chiave ironica; anche l'uso degli aggettivi segue lo schema della triplice ripetizione, sempre tre, più o meno sinonimi. 
"Napoleone diceva che esiste una sola figura seria di retorica, la ripetizione. La cosa affermata riesce a stabilirsi negli spiriti a tal punto da essere accettata come una verità dimostrata."
Le affermazioni vengono prese come dogmi non per la loro verità intrinseca ma per il tono con cui vengono esposte e per il numero di volte in cui vengono ripetute ed è difficile confutarle perché a usare la ragione si passa per stupidi. Basti pensare alle bufale che circolano ovunque, dai social ai parlamenti: scie chimiche, vaccini, olio di palma... persino sirene... teorie strampalate che sono entrate nei parlamenti! Senza che prima fossero analizzate su basi scientifiche, storiche o economiche ma solo perché ripetute incessantemente da una massa di persone senza alcun titolo che ripetono a loro volta slogan trovati su siti tipo tuttofuffa.net perché qualcuno dotato di retorica appena sufficiente ha saputo toccare le corde intime della folla facendo emergere le paure inconsce. 
Corde intime, paure inconsce.  Le Bon non dice assolutamente che i singoli uomini che compongono la folla siano degli imbecilli o degli ignoranti, tutt'altro. Spiega invece come e perché anche individui dotati di intelligenza e cultura subiscano una trasformazione quando si trovano inseriti in una "folla" (politica, religiosa, ideologica che sia). Inoltre non significa che gli uomini che costituiscono la folla siano individualmente privi di volontà ma che si spoglino della loro volontà nel momento in cui si ritrovano riuniti in folla e che le suggestioni scaturite dai discorsi dell'arringatore permangano anche quando gli individui ritornano alla loro vita, come se si fosse messo un cuscino isolante sulla loro capacità di analisi.

Fino circa un'anno fa ero stupidamente convinta che questa fosse una piaga tutta italiana conseguente allo smantellamento della prima Repubblica (che per quanto avesse i suoi difetti aveva anche ottimi pregi e ottimi politici), conseguente all'ascesa al potere di Berlusconi e al suo carrozzone di fenomeni da circo che hanno riempito gli scranni della politica italiana; caduti questi per corruzioni e piccole ripicche ci siamo ritrovati di fronte l'emergere dell'anti-politica ovvero la negazione dell'esercizio del potere decisionale, la fine dell'ars orandi mirata al coinvolgimento dell'elettorato e l'inizio di quella il cui unico fine è la soggezione emotiva. 

Negli anni successivi alla fine della prima Repubblica la politica ha progressivamente e inesorabilmente abdicato alla sua funzione di pater familias diventando sempre più compagno di sbronze. Il pater familias è quella figura che quando il figlio dice di aver fame e di volere pane e Nutella gli cucina un piatto di pasta, magari con i broccoli perché sfamano e fanno bene, sa cosa è bene per il bambino e parlando con lui riesce a convincerlo del fatto che si debba mangiare pasta e broccoli per crescere sani e forti... poi magari dopo la pasta si può concludere il pasto con una fettina di pane e Nutella. Ecco, il politico moderno è come il padre che non volendo sentir frignare il figlio gli serve subito pane e Nutella, dice al figlio quello che vuole sentirsi dire e soddisfa i suoi capricci perché non ha tempo o voglia di spiegare. Pensi che gli immigrati siano il male del Paese? Bene, ributtiamoli tutti in mare e costruiamoci un muro intorno. Pensi che la causa dei tuoi problemi siano l'Euro e il signoraggio? Bene, usciamo dall'Euro. Pensi che i tuoi problemi di lavoro derivino dall'olio tunisino? Bene, boicottiamo. Soluzioni facili che vengono facilmente propinate e recepite. Vogliono Nutella? Nutella sia!

Ha funzionato in Francia nel Settecento quando girava la voce che Maria Antonietta avesse pronunciato la famosa frase "dategli brioches" riferendosi al popolo affamato durante una rivolta dovuta alla mancanza di pane (voce che peraltro già circolava prima dell'arrivo di Maria Antonietta in Francia attribuita da Rousseau nelle sue Confessioni a una "grande principessa").
Ha funzionato durante la peste nera del Trecento quando gli Ebrei vennero incolpati di aver portato la peste.
Ha funzionato in Germania negli anni Trenta quando i tedeschi furono portati a credere che i loro problemi economici fossero causati dagli Ebrei. (in effetti le comunità ebraiche vincono l'Oscar come miglior perseguitato della Storia).

Ha funzionato nel Regno Unito per la Brexit.

Pensavo dunque che fosse un fenomeno tutto italiano... sbagliavo.
L'emergere di fenomeni politici come la Le Pen, Podemos e Tzipras mi ha fatto pensare che si potesse trattare di un fenomeno più esteso, radicato magari nella comune radice Mediterranea, un po' terrona diciamolo, poco formica e molto cicala. Ho iniziato a invidiare gli abitanti dei paesi più a Nord come Germania e Inghilterra per la loro rettitudine, la sobrietà, la capacità di mangiare pasta e broccoli senza lamentarsi più di tanto.
La vittoria del fronte della Brexit nel Regno Unito mi ha sconvolta. Mi ha sconvolta non tanto per quello che è ma per quello che significa: non c'è più scampo. La retorica della pancia sta permeando le democrazie più illuminate. 

Citando ancora - questo è davvero illuminante e non solo per quanto attiene al dibattito politico ma anche e soprattutto per il dibattito su temi scientifici, economici, sociali.

"I trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali, ma uomini d'azione. Sono poco chiaroveggenti, e non potrebbero esserlo, poiché la chiaroveggenza porta generalmente al dubbio e all'inazione. Appartengono specialmente a quei nevrotici, a quegli eccitati, a quei semi-alienati che rasentano la pazzia. Per quanto assurda sia l'idea che difendono o lo scopo che vogliono raggiungere, tutti i ragionamenti si smussano contro la loro convinzione. Il disprezzo e le persecuzioni non fanno che eccitarli maggiormente. Tutto è sacrificato, interesse personale e famiglia. Perfino l'istinto di conservazione viene distrutto in essi, a tal punto che, spesso, la sola ricompensa che essi ambiscono è il martirio. L'intensità della fede dà alle loro parole un grande potere suggestivo. "

Eccola spiegata in parole semplici, nel 1895 la teoria del gomblotto!!!!1
Ecco spiegato perché sia inutile mettersi a discutere con un sostenitore dei complotti (vaccini, olio di palma, signoraggio...): sarebbe come cercare di condurre Savonarola a una conciliazione con Rodrigo Borgia, non funzionerà mai e più si cercherà di dimostrare la validità delle tesi universalmente riconosciute e la fallacia di quelle dell'interlocutore più questi si chiuderà a riccio sentendosi perseguitato, martirizzato perché unico depositario di una verità che vogliono tener nascosta.

E qui si ritorna alla pancia, alla soddisfazione dei desideri della folla sia da parte degli uomini di stato sia dalla stampa che per vendere copie deve in soldoni scrivere ciò che la folla vuole leggere:
"Un tempo, e questo non è troppo lontano, l'azione dei governi, l'influenza di qualche scrittore e di un piccolo numero di giornali costituivano i veri regolatori dell'opinione. Oggi gli scrittori hanno perduto ogni influenza e i giornali non fanno più che rispecchiare l'opinione. In quanto agli uomini di Stato, lungi dal dirigerla, non cercano che di seguirla. Il loro timore dell'opinione giunge a volte fino al terrore e impedisce ogni fermezza alla loro condotta".

Stupefacente, stupefacente, stupefacente! Come ho fatto a rimuovere tutto questo?
Forse perché questo libro lo lessi tanti anni fa, quando ancora nemmeno votavo e la politica era un'idea, non una incombenza.
Ho sempre pensato che questo fosse un libro per dittatori, utile per spiegare i totalitarismi del XX secolo, le idee di base mi sono sempre circolate nella testa in questi ultimi venti anni ma come rumore di fondo, qualcosa che stava là come conoscenza a disposizione per spiegare la Storia.
Rileggerlo ora a distanza di tanti anni e trovarlo così facilmente applicabile alla realtà è sconvolgente.
Nihil novum sub solem, possiamo mandare l'uomo sulla luna, curare le infezioni, comunicare a distanza di migliaia di chilometri grazie a internet ma la mente umana è sempre quella e risponde sempre agli stessi stimoli da migliaia di anni, la parte primitiva e rettile del nostro cervello se ne frega di quello che siamo, di quello che abbiamo studiato o vissuto: risponderà sempre al suo istinto primordiale come prima cosa, la sopravvivenza e se sente questa minacciata la prima reazione sarà di chiudersi a riccio, alzare muri, trovare forza dal gruppo e gridare la complotto o alla persecuzione.
Conoscere questi meccanismi, conoscere le strutture della retorica può preservarci dal cadere nelle trappole degli oratori, scindere il messaggio dal messaggero e dall'intensità con cui questo viene espresso, ragionare sul messaggio, a maggior ragione se questo ci convince, cercare di capire se ci convince perché è coerente e motivato o perché è espresso in modo accattivante, l'uno comunque non esclude l'altro. Perché proprio nel momento in cui un messaggio ci pare tanto importante è maggiormente probabile che sia falso, distorto o che ci sveli solo una parte della realtà.

martedì 1 novembre 2016

Il Castello dei Destini Incrociati ovvero quando la genesi di un'opera letteraria è essa stessa opera letteraria.


E' la prima volta che mi capita di provare maggior interesse per la genesi di un'opera letteraria piuttosto che per il suo contenuto. Certo molta parte della letteratura del Novecento è fatta più da studio che da storia, fabula e intreccio tendono sempre più ad assumere un peso equivalente laddove la prima è la storia propriamente detta e la seconda la maniera di portarla alla luce, tuttavia un esempio di genesi a tavolino così lampante ancora non mi era capitato.
Si badi bene, non mi riferisco alla costruzione a tavolino dei best seller per la quale esistono ormai scuole specifiche che insegnano come scrivere per generare un successo i cui studenti vanno poi a ingrossare e ingrassare le fila dei ghostwriter, mi riferisco alla genesi del racconto o romanzo postmoderno, all'irrazionalità derivante dalla razionalità portata all'estremo da quei simpaticoni dell'Oulipo che in qualche modo hanno contribuito a sdrammatizzare l'angoscia provata dallo scrittore di fronte alla vastità del materiale letterario passato e alla disgregazione del presente.
Il castello dei Destini Incrociati è un testo che si regge in piedi e racchiude nella sua genesi, consapevolmente, tutto il tentativo dello scrittore di dare una struttura (intreccio) alla storia (fabula). 
E mi torna in mente Mantissa di John Fowles (sfortunatamente non tradotto in italiano), Il taccuino d'Oro di Doris lessing, Under the Net di Iris Murdoch e tutta quella letteratura del Novecento in cui forte è il sentimento di impotenza dell'autore di fronte alla composizione letteraria.

L'OCCASIONE:
FortunaNel luglio del 1968 Paolo Fabbri tenne a Urbino una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Nasce in Calvino l'"idea che il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono". La carta, la parola, la storia possono assumere diverse connotazioni o significati a seconda del ruolo che hanno all'interno della costruzione ma anche a seconda delle esperienze di chi racconta, è così che la carta del Bagatto assume nei racconti il ruolo del mago o del ciarlatano oppure del poeta a seconda del contesto di carte in cui si trova in un caleidoscopio di figure e storie che muta fora a seconda di come lo si gira.

Mi immagino Calvino seduto alla scrivania che tira fuori una carta, poi un'altra e un'altra ancora, cerca di disporle in un ordine e di dare un senso a questa disposizione, quando il senso non si trova rimuove una carta, poi un'altra, le sostituisce, le alterna, le dispone in varie forme come per ordinare pensieri e storie ma invece di scegliere la forma temporale da sempre congeniale alle opere a cornice (vedi Decameron, Racconti di Canterbury...) ne sceglie una geometrica: il quadrato, a lui più congeniale, rivelatore della sua appartenenza all'Oulipo.
Mentre dispone, toglie e alterna pare quasi che le carte stesse, le storie, i personaggi si impongano, autodeterminino se stesse e il loro posto nella storia, a destra di questa, a sinistra di quell'altra. E' Calvino che organizza il materiale, le carte, per raccontare delle storie o sono le storie che si organizzano per farsi raccontare da Calvino? E' l'autore che sceglie cosa narrare o sono la mille e più storie già narrate in passato che riaffiorano e cercano nuove soluzioni narrative tra le mani di Calvino? Non posso non pensare all'Orlando Furioso, a Macbeth, Faust... chi decide di raccontare e chi decide di farsi raccontare? 
Questo sentimento di impotenza si manifesta all'inizio della Taverna quando mani prepotenti tentano di scombinargli il materiale narrativo, frugano, nascondono, rubano e il narratore cerca in tutti i modi di trattenere le sue carte quando due mani forti iniziano ad aiutarlo a bloccargli le carte sul tavolo finché tutto ciò che resta a sua disposizione sono le carte trattenute dalle mani del salvatore sconosciuto e con quelle deve raccontare la sua storia. E' forse questa la figura dell'editore? Il narratore è allora libero di raccontare ciò che vuole o può raccontare solo quello che ha a disposizione? Per chi scrive l'autore? Per se stesso? Per l'editore? Per il lettore? Quando è stata l'ultima volta che un autore ha riscosso successo per qualcosa che ha scritto solo per se stesso? Non si piegano forse tutti al volere di qualcun altro?

Calvino ha a disposizione due mazzi di tarocchi: uno quattrocentesco col quale scriverà Il Castello dei destini incrociati e uno settecentesco che gli fornirà la materia per La Taverna dei destini incrociati.
Nel primo il materiale è più accattivante, il linguaggio più semplice, le storie concise e di immediato impatto, si riconoscono subito citazioni a Faust a orlando Furioso, anche il modo con cui Calvino tratta i temi dei suoi racconti è semplice e di immediata comprensione, boccaccesco quasi. Nella taverna tutto cambia, il linguaggio si fa più alto, le storie si dilungano in speculazioni a tratti filosofiche, le citazioni sono alte, dalla Terra Desolata di Eliot a Chrétien de Troye (e chissà quanti altri che non ho riconosciuto). Su tutti domina il tema della possibilità, c'è un grande ricorso al tema dell'incertezza e proprio la prima storia che viene narrata è quella dell'indeciso.

Lungo tutta l'opera, dall'introduzione alla conclusione serpeggia il tema dell'interpretazione. In entrambi i contesti (castello e taverna) i personaggi non possono parlare ma solo narrare la loro storia attraverso le carte dei tarocchi. Ognuno dispone le proprie carte sul tavolo e gli altri avventori costruiscono una storia verosimile. Se nel Decameron per ogni giovane c'erano dieci storie narrate nell'opera di Calvino per ogni narratore ci saranno tante storie narrate quanti saranno gli avventori presenti alla narrazione. Il lettore ha a disposizione ciò che riporta solo uno degli avventori ma l'opera di Calvino avrà nel tempo migliaia di lettori
e dunque migliaia di possibili storie e interpretazioni.

domenica 23 ottobre 2016

La diva Julia - Julia, Sybil, Marie Lloyd e l'icona dell'attrice perfetta



La letteratura inglese dei primi del Novecento è talmente ricca che questa opera di W. Somerset Maugham non viene nemmeno citata nei testi di storia della letteratura inglese. In effetti a mala pena viene citato Maugham. Forse avevano ragione i suoi detrattori che lo accusavano di scrivere in modo vecchio di tematiche vecchie. La rivoluzione che quei ragazzacci di Eliot, Joyce e Yeats avevano operato in tutti i campi della letteratura britannica, la novità dei temi, la novità del linguaggio e del genere letterario fu tanto sconvolgente che un'opera interessante come La Diva Julia venne considerata vecchia. E forse lo era.
Con un ritardo di quaranta anni sembra riprendere il tema accennato da Wilde nel Ritratto di Dorian Grey dell'attrice perfetta che quando si innamora smette di essere tale.
Sybil era una giovane attrice che viveva sul palcoscenico: in scena non c'era Sybil che recitava, erano Giulietta, Ofelia, Lady Macbeth che prendevano vita. La sua vita era sul palco e quando vi saliva tutto diveniva perfetto, di fronte a lei c'era Romeo, non un attore mediocre e poco attraente, il teatro diveniva castello o foresta, non recitava, viveva e faceva rivivere il dramma. Il pubblico la adorava. E' l'arte per l'arte che prende forma nei sobborghi di Londra, l'apoteosi dell'estetismo.
Poi conosce Dorian e lo bacia, il primo vero bacio d'amore le fa mettere in secondo piano la vita sul palco, ne percepisce finalmente la finzione e la magia si spezza, inizia a recitare, la rappresentazione è un disastro.
Suona familiare?
Nell'opera di Maugham Julia si innamora e viene abbandonata. Sale sul palco e "vi trasfuse tutto il tormento del suo spirito: il cuore straziato che raffigurava non era più quello di un personaggio, ma il suo".
Un disastro.
Sono due visioni diverse, quasi opposte dell'arte teatrale: nella visione di Wilde Sybil recita bene perché vive la scena, in quella di Maugham invece Julia recita bene perché non è naturale ma "sembra" naturale.
Sia Maugham sia Wilde  hanno scritto per il teatro e sul teatro ma mentre Wilde lo aveva vissuto da esteta, come pretesto per eleganti conversazioni, come mezzo di elevazione Maugham ha conosciuto il dietro le quinte, svuotato dalla magia, costituito da duro lavoro, tecnica, rinunce.
Entrambi hanno visto sul palco la Duse e la Bernhardt, le uniche donne a proposito delle quali si adoperava abitualmente la parola "genio," fatto eccezionale in un'epoca in cui si riteneva che il genio potesse essere solo maschile.
All'epoca di Wilde l'attrice era rivoluzionaria e trasgressiva, in quella di Maugham è una professionista, imprenditrice spesso, e così è Julia, una professionista borghese che ha dedicato la sua intera vita al teatro e al mantenimento della borghese apparenza, posseduta dall'arte della recitazione tanto da non riuscire a scindere la vita teatrale da quella reale, questo potrebbe far pensare a un finale drammatico, una presa di coscienza della finzione, della vacuità della sua vita, o almeno questo era quanto mi aspettavo, una tragedia insomma, preannunciata dal terribile sfogo che il figlio Roger le vomita addosso con una fredda calma vittoriana:

"Tu non distingui tra verità e finzione. 
Non smetti mai di recitare, per te è una seconda natura. Reciti quando ci sono degli ospiti. Reciti con i domestici, reciti con papà, reciti con me. Con me reciti la parte della madre amorosa e indulgente, e celebre. 
Tu non esisti, sei solo le parti innumerevoli che hai interpretato. Mi sono chiesto spesso se esistesse un "tu" o se non fossi altro che un veicolo per tutte queste altre persone che fingevi di essere. Quando ti vedevo entrare in una stanza vuota, certe volte volevo aprire la porta d'improvviso, ma temevo di non trovare nessuno".

Già, dopo queste parole ho percorso il resto del libro in attesa di un angosciante finale, preparandomi psicologicamente al momento in cui Julia avrebbe finalmente capito il significato di quelle parole e, sopraffatta dalla verità, avrebbe commesso il gesto estremo.
Col ciufolo che finisce in tragedia invece!
Il finale è un fuoco d'artificio continuo, un'esplosione di giustificata superbia, il trionfo della Diva che esce indenne dalla città in fiamme "Roger dice che non esistiamo. Macché, solo noi esistiamo davvero. Loro sono le ombre a cui diamo sostanza. Siamo i sinboli di tutto questo trambusto vano e confuso che chiamano vita, e solo il simbolo è reale. Dicono che recitare è solo finzione. Questa finzione è la sola realtà".


"Tutto il mondo è teatro e uomini e donne solo commedianti" Ma l'illusione sono loro, oltre quegli archi; la realtà siamo noi, gli attori. Ecco la risposta a Roger. Quelli sono la nostra materia grezza. Siamo noi a dar significato alla loro vita. Prendiamo le loro piccole insulse emozioni e le mutiamo in arte, creiamo bellezza, e loro importano perché formano il pubblico che ci occorre per realizzarci. Sono gli strumenti su cui noi suoniamo, e cos'è uno strumento senza qualcuno che lo suoni?




 Stavo per accantonare questo post quando girovagando tra scartoffie, appunti e libri mi trovo a passare dalla Taverna dei destini incrociati di Calvino alla Terra desolata di Eliot cui segue, nell'edizione di Opere in mio possesso (un mattonone della Bompiani stampato su carta tipo Bibbia) una lettera del 1922 alla rivista The Dial in cui parla dell'attrice britannica Marie Lloyd. Di lei dice:

"Marie Lloyd era, in Inghilterra, la più grande attrice di music hall del suo tempo: ed era anche la più popolare. E la popolarità, nel suo caso, non era solo la prova del suo talento: era qualcosa di più del successo. (...) Mentre altri attori divertono il pubblico quanto e a volte più di Marie Lloyd, nessun altro è riuscito così bene a dare espressione alla vita di quel pubblico e a innalzarla a una sorta di arte. (...) Non c'era in lei nulla di grottesco; nessuno dei suoi spunti comici era dovuto all'esagerazione; si trattava esclusivamente di selezione e concentrazione. (...) Ho detto che era colei che meglio rappresentava le classi meno abbienti. Non esiste una figura così rappresentativa per nessun'altra classe sociale. Il ceto medio non ha un idolo simile."

Mi piace pensare che in Julia ci sia, almeno nella genesi di Maugham, un po' della Duse, un po' (poco) della Bernhardt e un poco della Lloyd.

sabato 22 ottobre 2016

Grenouille novello Frankenstein? - Una mezza stroncatura de "Il Profumo"






















Quando mi immergo nella lettura di un nuovo libro è come se tutti i libri finora letti lo leggessero insieme a me, parola dopo parola, sottolineando somiglianze, plagi o differenze.

Accade anche con i libri insignificanti.

Anzi, forse proprio perché insignificanti accade che per dare giustificazione alle ore perse nella lettura io tenda a vederci ciò che magari neanche c'è.

E' quanto è accaduto leggendo "Il profumo" di Suskind, opera mediocre nella forma e nel contenuto di cui l'unica cosa che forse si salva è Parigi, le sue vie, i suoi profumi, le sue botteghe. Quando viene abbandonata Parigi il libro muore e si può tranquillamente accantonare.

250 pagine per narrare la vita di Grenouille, di un evil perfetto, un archetipo, senza morale, senza rimorso, senza... profumo.

Un personaggio che è pura ὕβϱις (Ýbris, superbia). Niente introspezione, niente coscienza, un personaggio talmente piatto e immobile che c'è da fare i complimenti all'autore per come è riuscito a tenersi lontano dalla tentazione di dare una giustificazione morale alla sua creatura.

E parlando di creatura non si può non pensare alla Creatura di Mary Shelley, mostro deforme nell'aspetto, in questo simile a Grenouille, ma tanto, tanto diverso per quanto riguarda la caratterizzazione del personaggio.

L'intuizione che in qualche modo giustifica la stesura di quest'opera è la determinazione dell'umanità attraverso il profumo, l'odore: un essere è umano ed esiste in quanto ha un odore ben specifico: sin dal principio madre e figlio si riconoscono e si accettano attraverso l'olfatto, il più primitivo dei sensi, quello più difficile da ingannare, l'odore che ognuno porta su di sé è ciò che ci definisce come persone così come ci definisce il nostro nome. Il nome definisce ciò che siamo, ci divide dal resto, ci manifesta come entità autonoma esistente separandoci dalla collettività e conferendoci dignità di persone.

Grenouille nasce senza odore

La Creatura nasce senza nome

Entrambi vengono rigettati e rinnegati dalla società, riconosciuti come il diverso, l'altro, per poi diventare agli occhi di chi osserva il שָׂטָן (Satàn in ebraico), l'avversario, "colui che si oppone", l'osteggiatore, l'aggressore.

Ma le differenze tra i due sono abissali.

La Creatura del dottor Frankenstein, cui è stato negato il nome, anela il riconoscimento, entrare a far parte della società, trae piacere dai fiori, dagli animali, desidera ardentemente essere amato e ricondotto in famiglia, in una famiglia qualsiasi e per un breve, brevissimo momento sembra riuscirci nell'incontro con un uomo cieco che lo accoglie in casa, gli parla con gentilezza, gli promette protezione. Poi, in un attimo, tutto è perduto, la felicità diventa dolore, il dolore odio, l'odio diventa desiderio di vendetta.

In Grenouille sembra esserci lo stesso desiderio: una volta compreso che è l'assenza di odore che lo allontana dalla società vive (e uccide) con il solo obiettivo di possedere un odore, anzi no, di possedere quell'odore che ispira amore, devozione, tenerezza, protezione. E quando finalmente riesce a possederlo, quando finalmente riesce a essere amato e apprezzato l'unico sentimento che prova è il disprezzo, il disgusto. Con in tasca la sua bottiglietta di odore perfetto si trastulla in sogni di gloria e potere, si congratula con se stesso per la sua superiorità nei confronti del genere umano ed... esagera.

L'Ýbris, la superbia che lo ha caratterizzato per tutta la sua vita sarà la causa della sua morte. Come Prometeo, come Lucifero cadrà.

sabato 15 ottobre 2016

In Difesa di Bob Dylan


Il Nobel per la letteratura assegnato nel 2016 a Bob Dylan ha sollevato un polverone. Non ultimo lo scrittore italiano Alessandro Baricco, autore di Novecento, si è chiesto a mezzo stampa cosa c'entri Bob Dylan con la letteratura. 
Alle sei e trenta di mattina del giorno dopo me lo chiedo pure io.
Cosa c'entrano le canzoni con la letteratura?
C'entrano tutto.
Come piccola riflessione personale potrei citare il fatto che nel mio sussidiario delle elementari era riportato, tradotto in italiano, il testo di Blowing in the Wind e se ne stava lì a testa alta insieme ad A Zacinto di Foscolo e alla canzone del partigiano...
Risposta non c'è
Ma forse chi lo sa
Perduta nel vento sarà...
Allora la conobbi come un testo scritto, la portai a casa da leggere e scoprii che in effetti nasceva in musica così il giorno dopo a scuola noi gnappetti di circa otto anni c'è ne andavamo per i corridoi intonando la sua canzone come una promessa, una speranza di un futuro migliore.
Dopo la breve digressione tutta personale torno a chiedermi cosa c'entra Dylan con la letteratura?
Ovvero
Cosa c'entrano le canzoni con la Letteratura?
Cosa è la letteratura?
Omero è letteratura?
Catullo è letteratura?
Shakespeare è letteratura?
I trobadours del 1200 sono letteratura?
Se la risposta alle ultime quattro domande è sì allora le canzoni c'entrano eccome!
Catullo.
Mùltas pèr gentès et mùlta per aèquora vèctus
àdvenio hàs miseràs, fràter, ad ìnferiàs...
Gli accenti rivelano il sistema di vocali brevi e lunghe che caratterizzavano il latino e che è rimasto sparso qua e là nelle lingue romanze. Si provi a leggerlo ad alta voce assecondando l'andamento degli accenti e si scoprirà che è ritmo e musica, distico elegiaco per l'esattezza.***


L'epiteto utilizzato per Omero, o chi per lui, è aedo. Gli aedi nell'antica Grecia erano i poeti, figure al limite del sacro spesso raffigurati come ciechi, non distratti dall'umana volgarità.

ὁ μὴ ὁρῶν (ho mè horôn) "colui che non vede" - Omero

Prima della tradizione scritta di Iliade e Odissea ci fu la tradizione orale, un'insieme di canti tramandati da generazioni. La poesia non era scritta ma orale, recitata, ricordata grazie a stratagemmi come epiteti, rime, assonanze, ripetizioni e musica, era inscindibile dall'alternanza di brevi e lunghe, inscindibile dal ritmo e dalla musica.

Se l'oralità dei poemi omerici non consentì di stabilire edizioni canoniche la tradizione scritta, nel tentativo di ricostruire un testo quanto più possibile aderente all'originale, dovette tagliare, emendare, tralasciare parti e aspetti importanti, cosicché quando il testo iniziò a circolare in Occidente dopo la presa di Costantinopoli, grazie ai profughi orientali che portarono le maggiori opere trascritte, la musicalità si era perduta, soprattutto perché nel medioevo occidentale il greco non era una lingua studiata e conosciuta, non c'era familiarità con il suo suonoe ciò che si conosceva della cultura greca erano per lo più testi tradotti in latino, scritti, letti, non decantati.


Nel basso Medioevo esistevano i trovatori, compositori ed esecutori di poesia lirica in lingua occitana nella Francia meridionale. In seguito si diffusero anche in Italia settentrionale, in Spagna e in Sicilia alla corte di Federico II di Svevia. La poesia era cantata o dagli stessi trovatori (autori) oppure dai menestrelli, era musicata, spesso con accompagnamento musicale.

Prova dell'importanza che la musica rivestiva nelle liriche dei trovatori sono due delle diciotto composizioni di Arnaut Daniel delle quali sono sopravvissute le note musicali... Arnaut Daniel, colui che Dante definì "il miglior fabbro del parlar materno"... mica pizza e fichi.


Il fatto che l'accompagnamento musicale fosse spesso improvvisato, non canonizzato, non trascritto ha fatto sì che via via si tendesse a scindere la parola scritta dalla sua forma orale cantata stabilendo, forse neanche intenzionalmente, la supremazia della prima sulla seconda.


A sottolineare lo stretto legame storico della poesia con la musica e il ritmo restano le definizioni: Iliade e Odissea sono divise in Canti, la Divina Commedia è ripartita in canti, le raccolte di poesie del medioevo vengono definite Canzonieri, componimenti medievali venivano definiti Chansons (de geste, de croisade, de toile...) Shakespeare viene definito il Bardo, proprio a sottolineare la musicalità del suo pentametro giambico (altra alternanza di accenti) ed Ezra Pound, bistrattato, dimenticato genio letterario del Novecento, ha chiamato Cantos il suo poderoso poema incompiuto proprio in relazione e devozione alle Canso medievali, un altro "miglior fabbro", questa volta secondo il giudizio di T.S Eliot.


Quindi signor Baricco Bob Dylan c'entra eccome con la letteratura. Forse quello fuori posto è lei.


*** Negli anni degli studi ci sono tante nozioni che vengono via via dimenticate, sepolte sotto valanghe di altre nozioni, ricordi, liste della spesa, fotografie. Poi ci sono lezioni che sicuramente non riuscirò a dimenticare e ritorneranno alla mia mente a novanta anni quando non sarò in grado di ricordare cosa avrò mangiato a pranzo. Tra queste la metrica latina, quando il prof. De Micheli (latinista, matematico e musicista) dirigeva dalla scrivania la classe che intonava in metrica i versi di Catullo e Tibullo.

mercoledì 21 settembre 2016

Martha Quest - una ribelle mancata



E...... no, non è il giovane Holden in gonnella, l'anti-eroe che ha stravolto l'America benpensante.
Non è nemmeno Elizabeth Bennet, l'arguta signorina della campagna inglese nella quale molte, moltissime ragazzine, e donne, si sono viste e sognate.

"non ne posso più; e sono stanca anche del futuro, ancor prima che venga." Olive Schreiner

La citazione che accompagna l'apertura della parte prima riassume in soldoni tutto il libro.
Entriamo subito in contatto con Martha seduta in veranda, tra le mani un libro e negli occhi tutto l'astio possibile nei confronti di sua madre, dell'amica di sua madre, della figlia dell'amica di sua madre e della catapecchia in cui vive.
Martha è sveglia, è curiosa, legge tanto, forse troppo ma non osserva "non è un'osservatrice", la Lessing lo ripete due volte nel corso del libro, forse perché troppo concentrata su se stessa, sul suo malessere, sulla sua rabbia, sulla sua presunzione. Presunzione di essere... che? Un genio incompreso, una portavoce dei diritti di donne, ebrei, neri, lavoratori, qualunque cosa vada contro lo spirito stanco e borghese cui appartiene la sua famiglia. Salvo poi scoprire il grande paradosso della terra coloniale in cui vive ovvero che esistono razzismi interni alle stesse classi di cui vuole farsi portavoce. Esistono razzismi tra ebrei inglesi ed ebrei polacchi, tra neri di città e neri di fattoria, tra donne caste e non.
Sporadiche citazioni di fatti di cronaca ci fanno capire che siamo giunti all'alba della Seconda Guerra Mondiale ecome se tutto il mondo fosse colpito da un virus globale la violenza dei toni inizia a infettare tutto, come spruzzata dall'alto dalla mano della Storia.

Il libro copre tre anni della vita di Martha, dai quindici ai diciotto/diciannove. All'inizio il senso di simpatia per questa giovane ribelle saccente è forte, anche sua madre pur non comprendendola ritiene che sua figlia sia destinata a compiere grandi cose "si farà strada" dice, ma poi accade qualcosa, o meglio non accade: Martha non supera l'esame di maturità, a dire il vero non si presenta nemmeno a causa di un tracoma. Scopriamo come questa sia l'ultima di altre scuse che hanno impedito a Martha di combinare qualcosa: niente musica, niente cresima, ogni volta che viene messa di fronte alla possibilità di dimostrare la sua supposta superiorità un evento esterno le impedisce di farlo. In questo e in altri atteggiamenti mi ha fatto pensare al padre, forse brillante un tempo ma in seguito indebolito nello spirito dalla Guerra e nel corpo da una lieve forma di diabete, entrambi gli forniscono l'alibi per non aspettarsi nulla da lui, nulla di più di quel che è o fa.

Persa l'occasione per dimostrare la sua grande intelligenza all'università, dopo due anni trascorsi nella totale nullafacenza coglie al volo l'occasione di fuggire dalla fattoria, le trovano casa e lavoro e...
beh...
Non accade praticamente più nulla se non il lasciarsi trascinare dagli eventi senza entusiasmo, senza partecipazione. La ragazza nella quale avremmo voluto immedesimarci scompare e prende il suo posto una figura noiosa, antipatica, sempre pronta a giudicare gli altri ma non a essere giudicata. La sua vita scorre senza lampi, senza gioia, senza partecipazione si ritrova a rotolare giò da una collina senza nemmeno la voglia di impedire il rotolamento.
Verso la fine del libro si accende una speranza, sembra irrompere la luce di una conoscenza nuova, una persona speciale che possa infine darle l'ascolto e la comprensione di cui ha bisogno ma il tutto è descritto con stanchezza, forse noia, come se all'autore non interessasse più il destino di questa donna e volesse rapidamente chiudere il libro.
Devo capire se avrò ancora voglia di rivedere Martha nel seguito "Un matrimonio per bene", la premessa non mi convince affatto.
Devo capire soprattutto se avrò voglia di rileggere qualcosa della Lessing. Proverò l'ultima volta con Il Taccuino d'Oro e poi deciderò se accantonarla o proseguire.

Il libro si salva però, si salva nelle irresistibili descrizioni della Lessing del paesaggio, della terra che l'ha cresciuta, lo stupore è lì, nello spaziare dello sguardo sul Veld, nell'insinuarsi tra le differenze sociali di baracche e palazzi, nell'osservare silenzioso e discreto la società coloniale, questo mix di culture, colori, ipocrisie che si uniscono senza però comprendersi pienamente, ognuno arroccato nella parte di città (o campagna) che gli è stato destinato con i propri sospetti, le proprie chiusure, la paura della contaminazione attanaglia anche i più insospettabili e attraverso gli occhi di Martha proviamo disgusto. Potrebbe esserci molto di più ma forse è il mio sguardo di europea a desiderare quel tocco di pittoresco che non c'è, come fossimo ancora nell'Ottocento e l'Africa una terra misteriosa, come se Martha fosse una scimmia chiamata per divertire il pubblico borghese, invece questa scimmia si rifiuta di ballare e si mette a discorrere del tempo e sorseggiando tè nero.

domenica 4 settembre 2016

Storia di una ladra di libri - una storia di Parole



Il libro mi fu regalato da mia madre. Ha l'abitudine di regalarmi i libri che ha già letto e tra noi c'è una sorta di patto che vale per i libri così come per i vestiti: se ti piace te lo tieni, altrimenti lo vendi, lo regali, lo butti... basta che non torna indietro.

E' rimasto su di una mensola per un po' di tempo, anni. Ogni tanto lo prendevo in mano, leggevo la sinossi,e lo rimettevo sulla mensola.
In soldoni la sinossi dice che siamo nel 1939, nella Germania nazista, che la ragazza ruba un primo libro, poi un secondo, un terzo... sembra più che altro la storia di un'accumulatrice compulsiva, una di quelle storie che raccontano su Real Time, con una spolverata di nazismo e un pizzico di shoah che ci stanno sempre bene.
Per nulla accattivante.

Invece no.
Invece è un libro di Parole.
Di Parole, di libri, di scritti, disegni, letture, vernici.
Con le parole si combatte, si domina, si ama.
Tra tante parole mancano un "grazie" all'inattesa benefattrice, un "ti voglio bene" alla mamma, le parole dell'affetto vengono taciute lasciando che siano i gesti a parlare.
Parole d'odio che vengono ricoperte e sovrascritte da parole d'amore e speranza, un palinsesto di come il mondo dovrebbe essere e invece non è.
Parole offensive che significano amore.
Parole che assumono fisicità, peso, sostanza, vengono trasportate come fardelli, lasciate cadere con un tonfo, gettate su di un tavolo o per terra dove restano immobili a farsi guardare, un oggetto perturbante che irrompe nella realtà, un nuovo rigurgito di gotico, tutto postmoderno, in cui il perturbante non è più il mostro, lo sciamano, il gatto nero ma la realtà che si palesa, l'ovvio di cui nessuno osa parlare perché chiamarlo per nome significherebbe immediatamente riconoscere la sua esistenza.
E doverci fare i conti.
Dunque... Parole.
Il narratore è onnisciente. Chi meglio della Morte può conoscere passato, presente e futuro?
Il narratore sa già come va a concludersi la storia e goccia a goccia ce lo anticipa. Un po' qui, un po' là.
Cosicché il lettore desidera terminare la lettura del libro non tanto per sapere come andrà a finire ma come verrà narrato il finale, quali Parole verranno utilizzate, quali aggettivi, quali avverbi, quali immagini verranno materializzate tra le righe.
E' l'autore che sgama il lettore avido, quello che arrivato all'ultimo centinaio di pagine va a curiosare il finale per decidere se continuare o no a leggere. O quello che legge freneticamente e senza approfondimenti le ultime pagine perché quello che davvero gli preme è avere un finale per poter poi classificare il libro tra "libri che fanno piangere", "libri a lieto fine", "libri acchiappapolvere".
Fregati!
Zusak ci risparima la fatica, ci svela il finale nel momento in cui ritiene che siamo abbastanza pronti per sostenerlo, nel momento in cui "se siamo arrivati fin lì significa che possiamo anche andare oltre terminando la lettura con un macigno sul cuore". Personalmente ho apprezzato molto, le sorprese non mi piacciono, i colpi di scena mi destabilizzano. Insomma, se proprio devo piangere, ridere, sconvolgermi preferisco arrivarci preparata cosicché posso decidere io quando affrontare il Momento, no che mi arriva durante la pausa pranzo a 20 minuti dalla timbrata del cartellino. Ecco, io sono classificabile tra quegli avidi che al quarto quinto di una lettura va a vedere come termina in modo da decidere io quando e come terminare il libro.

Che poi adesso con tutto questo discorso sulle parole, sulla loro matericità e importanza mi viene in mente Moretti quando si incazza perché "le parole sono importanti"

Ma questa è un'altra storia
E ci torneremo un'altra volta