lunedì 13 aprile 2009

Lisbona e il paradosso dell'ottimismo

Il giorno di Ognissanti del 1755 un terremoto pari al IX grado della scala Richter ebbe come epicentro la città di Lisbona provocando decine di migliaia di vittime. Il Portogallo era un paese fervente cattolico e la coincidenza della tragedia con una festività cattolica piombò teologi e filosofi in una situazione di empasse.

Eventi simili si erano già verificati, negli anni precedenti, in molte parti d'Europa ma il terremoto di Lisbona assunse un significato particolare grazie a Voltaire e al suo "Poema sul disastro di Lisbona" del 1756, destinato ad aprire un dibattito culturale che avrebbe coinvolto i maggiori filosofi dell'epoca.

Voltaire si inserisce nella polemica contro l'ottimismo metafisico già iniziata, proprio da lui, con il romanzo filosofico "Zadig" e che avrebbe trovato il suo culmine con il "Candide"; tale polemica aveva come bersaglio Leibniz e il suo concetto filosofico secondo il quale "tutto è bene nel migliore dei mondi" ispirato dal concetto della perfezione di Dio. Un disastro come la distruzione della città di Lisbona sembrò a Voltaire la più grande confutazione di ogni ottimismo filosofico o teologico.


O infelici mortali! O terra di pietà!

O cumulo spaventoso di tutti i flagelli!

Successione eterna di inutili dolori!

Filosofi illusi, che gridate "Tutto è bene",

accorrete, contemplate queste orrende rovine,

queste macerie, questi detriti, queste ceneri miserande,

queste donne, questi bambini ammucchiati l'uno sull'altro,

queste membra disperse sotto i marmi infranti;

centomila sventurati divorati dalla terra,

che terminano i loro giorni miserevoli sanguinanti, straziati e ancora palpitanti,

sepolti sotto le loro case, senza soccorso, fra orribili tormenti!

Direte vedendo questi orribili mucchi di vittime

"Dio si è vendicato, la loro morte è il prezzo dei loro delitti?"

Quale errore, quale delitto hanno commesso questi fanciulli

schiacciati, sanguinanti, sul seno materno?

Lisbona, che più non esiste, ebbe forse vizi maggiori

di Londra, di Parigi, immerse nei loro piaceri?

Lisbona è distrutta e a Parigi si danza.


è in quel "tout est bien", tutto è bene, che l'enfasi polemica si pone, la sofferenza umana non trova nessuna giustificazione nel provvidenzialismo e nemmeno la trova nell'idea di castigo divino, teoria avanzata da una parte del clero cattolico. 


A questo poema risponde Jean-Jacques Rousseau in una lettera del 18 agosto 1756. Il filosofo distingue tra "tutto è bene" e "tutto è il bene" dove l'articolo pone l'accento sulla bontà del creato nel suo complesso e non delle sue singole parti: «Uomo, sii paziente, i tuoi mali sono una conseguenza ineluttabile della natura umana e della costituzione di quest’universo. L’Essere eterno e benevolo che lo dirige avrebbe voluto tenerli lontani da te: tra tutte le varianti possibili ha scelto quella che aveva meno male e più bene o, per dire la cosa più brutalmente, se non ha fatto meglio vuol dire che non era possibile farlo»

 

Poi si sofferma sulla responsabilità di quella catastrofe:

"Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l’identità personale di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?"

Avreste voluto — e chi non l’avrebbe voluto! — che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città?"

Una pregnante conclusione Rousseau la lascia nell'apertura dell'"Emile": "Tutto è bene nascendo dalle mani dell'autore delle cose e tutto degenera tra le mani dell'uomo."


La scossa di terremoto, che durò, riportano le cronache, sei minuti, provocò, l'ora seguente un'onda anomala dell'altezza di 12 metri che sommerse il porto e la città bassa.

Ecco come Voltaire immagina la scena nel "Candide":

Una metà dei passeggeri, sfiniti, stremati dalle inimmaginabili angosce che il rullio d'un vascello provoca nei nervi e negli umori tutti del corpo agitati in senso opposto, non avevano nemmeno la forza di allarmarsi del pericolo. L'altra metà urlava e pregava; le vele eran strappate, gli alberi spezzati, il vascello squarciato. 

[...]

Quando si furono un poco rimessi, s'incamminarono verso Lisbona; restava loro qualche soldo, col quale speravano di scampar dalla fame dopo esser scampati alla tempesta.

Hanno appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie.

[...]

Un ometto nero, familiare dell'Inquisizione, che gli stava accanto, prese educatamente la parola e gli disse:

“Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; poiché, se tutto va per il meglio, non c'è dunque stata né caduta né castigo”.

“Domando umilissimamente perdono all'Eccellenza Vostra” rispose Pangloss ancora piú educatamente “perché la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”. 


Anche Immanuel Kant si inserì nel dibattito filosofico originato dal terremoto di Lisbona pubblicando, nel 1756 "Storia e descrizione naturale dei fenomeni più considerevoli del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte della terra". La tesi centrale è volta a dimostrare che i terremoti sono fenomeni naturali prodotti dalle stesse leggi di natura che reggono ogni altro evento sulla Terra conducendo un'analisi esclusivamente scientifica del terremoto pur non tralasciando considerazioni di ordine morale: l'universo di Kant è buono in quanto ordinato secondo leggi meccaniche impostegli da Dio difendendo così la peculiarità della scienza moderna, che esclude ogni causa finale, e l'ottimismo metafisico leibniziano.

Noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare

venerdì 10 aprile 2009

Ah perché non son io co' miei pastori?


Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d'acqua natía
rimanga ne' cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d'avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh'esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l'aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io cò miei pastori?


Gabriele D'Annunzio
Alcyone - Sogni di terre lontane
I Pastori

domenica 5 aprile 2009

Cappuccetto rosso

Immagine: illustrazione di Gustave Doré

Cappuccetto Rosso è un racconto di tradizione popolare che ha conosciuto numerose varianti nel corso dei secoli, si ritrovano tracce della storia sparse per l'Europa risalenti fino al XI secolo. In una di queste versioni orali tramandate il Lupo, arrivato a casa della nonna, la divora lasciandone tuttavia un po' da parte. Quando Cappuccetto Rosso arriva il Lupo offre alla bambina un po' di carne e vino, corpo e sangue della nonna.

In Italia si conoscono tre versioni regionali di questa fiaba: una abruzzese e una lombarda.

La finta nonna, fiaba di origine abruzzese, narra di una bambina mandata dalla nonna a svolgere una commissione. Durante il tragitto deve attraversare il Fiume Giordano e la Porta Rastrello che, per farla passare, le chiedono di avere un po' del cibo che sta portando alla nonna.
Una volta arrivata a destinazione trova, un'Orchessa che la nonna se l'era mangiata tutta intera tranne i denti, messi a bollire in un pentolino, e le orecchie, che aveva fatte fritte. L'Orchessa, non riconosciuta dalla nipote, invita la bambina a mangiare quello che cuoce sul fuoco ma la bimba declina e s'infila nel letto con quella che crede sua nonna. Nota le mani e il petto peloso ma l'Orchessa, con una scusa, la convince che è tutto normale, quando però si accorge che l'Orchessa ha una coda si insospettisce e, con la scusa di dover fare i bisogni esce dal letto e scappa. Tornando a casa deve percorrere lo stesso tragitto dell'andata e il fiume, riconoscente verso la bambina, che aveva diviso con lui la merenda, la lascia passare ma sommerge l'Orca e la trascina lontano.
E' singolare notare come, con un atteggiamento molto mediterraneo, la bambina sulla riva si soffermi a "prendere a sberleffi" l'Orchessa che viene trascinata dalla corrente del Fiume Giordano.

Nella versione lombarda, "Il lupo e le tre ragazze", originaria dell'area del Lago di Garda, si parla di tre sorelle che si devono recare dalla mamma malata per portarle generi di conforto, due sorelle si lasciano spaventare da un lupo che sbarrò loro la strada, la terza, prima di partire, cuoce una torta piena di chiodi, e quando viene bloccata nella foresta dal lupo, gli dà da mangiare la torta chiodata. Il lupo però trama vendetta, si reca dalla mamma malata, la inghiotte tutta intera e si mette nel letto al suo posto. Quando la fanciulla arriva a casa della mamma viene anche lei mangiata dal lupo ma gli abitanti del paese, impauriti nel vedere un lupo in città, lo uccidono, gli aprono la pancia salvando madre e figlia.
Anche in questa versione si può sottolineare l'arroganza della bambina che, tornata a casa con la mamma, sottolinea il suo successo a fronte del fallimento delle sorelle.

Fu Charles Perrault  a rendere celebre la fiaba di Cappuccetto Rosso trascrivendola nei suoi "Racconti di mamma Oca" del 1697. In questo racconto viene congelata le versione che vede la mamma di Cappuccetto inviare la figlia dalla nonna malata. Cappuccetto incontra il Lupo che si mostra amichevole nei confronti della bambina, tanto da farle rivelare dove viva la nonna. Si lasciano con una sfida a chi arriva primo dalla nonna. Il Lupo è più veloce, arriva a casa della vecchietta, la mangia in un sol boccone e aspetta la bambina che avrà la stessa sorte della nonna.
In questa versione non c'è salvezza: nonna e nipote muoiono nella pancia del Lupo e Perrault conclude con tono moraleggiante:
"Da questa storia si impara che i bambini, e specialmente le giovanette carine, cortesi e di buona famiglia, fanno molto male a dare ascolto agli sconosciuti; e non è cosa strana se poi il Lupo ottiene la sua cena. Dico Lupo, perché non tutti i lupi sono della stessa sorta; ce n'è un tipo dall'apparenza encomiabile, che non è rumoroso, né odioso, né arrabbiato, ma mite, servizievole e gentile, che segue le giovani ragazze per strada e fino a casa loro. Guai! a chi non sa che questi lupi gentili sono, fra tali creature, le più pericolose!"

La versione dei Fratelli Grimm, "Kinder und Hausmarchen", ricalca la storia come viene narrata da Perrault ma la tramanda con un finale diverso: il Lupo, dopo aver mangiato nonna e nipote, si mette a dormire russando rumorosamente, questo insospettisce un cacciatore che entra in casa della nonna per accertarsi che stia bene e trova al suo posto il lupo con la pancia piena. Insospettito apre la pancia del Lupo dalla quale escono nonna e nipote, al loro posto vengono messe delle grosse pietre e per il grande peso il Lupo, fermatosi a bere al fiume, viene trascinato nelle acque e muore. 
Nella redazione della loro versione, i Fratelli Grimm raccolsero in verità due versioni tedesche, una delle due versioni fu trasformata nella storia principale, l'altra nel seguito che vede nonna e nipote nuovamente minacciate da un lupo ma, avendo fatto tesoro della precedente esperienza, riescono a trarlo in inganno e ucciderlo.

Nei precedenti post dedicati alle fiabe non mi sono soffermata, volontariamente, sulle interpretazioni che sono state loro date, soprattutto nel XX secolo, e non lo farò neanche questa volta ma c'è da riportare almeno il fatto che questa fiaba, vuoi per il colore rosso del cappuccio, vuoi per l'antitesi bosco-villaggio, vuoi per la figura maschile del cacciatore, sia stata la più soggetta ad analisi psicologiche, sociali e sessiste. Ho letto cose atroci a riguardo e ve le risparmio di cuore, lasciandovi solo solo immaginare come possa essere l'interpretazione chimico-metallurgica di questa fiaba.