domenica 28 settembre 2008

Di un falso e delle sue filiazioni


Finalmente è arrivata la notizia che stavo aspettando: dopo il Codice da Vinci, dopo le incredibili rivelazioni di Zecharia Sitchin e tanti altri più o meno famosi, un altro autore, a me, confesso, sconosciuto, si accinge a pubblicare l’ennesimo romanzo ispirato ai misteri della storia e, più precisamente, ai misteri contenuti nei manoscritti. Mi riferisco al libro “Il manoscritto di Dio” di Michael Cordy che uscirà prossimamente grazie alla Editrice Nord. Si tratta di un fanta-thriller a sfondo storico-religioso che tira dentro un po’ di tutto: Catari, alchimia, mappa dell’Eden, Amazzonia e Gesuiti. Il vero protagonista è il manoscritto Voynich, uno dei più famosi, e costosi, falsi della storia.La sua storia mi aveva incuriosita al primo incontro perché ancora si cercava di spacciarlo per vero e perché coinvolgeva uno dei più loschi figuri che si siano mai affacciati sul panorama europeo: John Dee. Chi fosse John Dee è difficile dire, io lo incrociai per la prima volta ai tempi della tesi, quando lessi che una copia dei Viaggi di John Mandeville compariva nell'elenco dei testi da lui posseduti, mi incuriosii e andai a vedere di chi si trattava. Sulle enciclopedie veniva descritto come un uomo misterioso, matematico, occultista e alchimista inglese, astrologo personale della regina Elisabetta I. Lo ritrovai quindi associato al mito del manoscritto di Voynich: insieme al suo compare Edward Kelley, negromante inglese anche lui, riuscì a farsi comperare il manoscritto da Rodolfo II, appassionato di alchimia, per una somma allora esorbitante, seicento ducati d'oro, spacciandolo per un'originale del leggendario Ruggero Bacone, noto occultista del XIII secolo.

Ma che cosa contiene il manoscritto di Voynich?
Probabilmente nulla. Le 102 carte che lo compongono presentano una notevole quantità di illustrazioni a colori raffiguranti piante, segni zodiacali, figure di nudi femminili, ampolle e fiale, il tutto corredato da scritte in una lingua sconosciuta. Per essere stato spacciato per un originale del XIII secolo contiene quantomeno alcune inesattezza: nonostante le scritte siano indecifrabili vi si possono riconoscere, in quella che viene definita la sezione botanica, piante che all'epoca non potevano essere note come il peperoncino e il girasole, introdotti in Europa dopo la scoperta delle Americhe. L'ex-libris conferma l'acquisizione del testo da parte di Rodolfo II ma porta anche, come nome del possessore, il nome di Marcus Marci, medico dello stesso Rodolfo, forse prova del fatto che l'imperatore stesso aveva mangiato la foglia.


 Il testo, rinvenuto a Villa Mondragone nel 1912, rappresentò un vero e proprio enigma per decenni, tanto da scomodare alcuni tra i più grandi criptologi. Negli anni Venti si credette di aver trovato una chiave interpretativa grazie a William Newbold, esperto di filosofia medievale, che aveva invece malinterpretato come codice le increspature della carta, fu ritentata la decifrazione negli anni Quaranta con gli esperti di crittografia della marina statunitense, alcuni di loro provenivano dai laboratori di Enigma per intenderci, niente. Solo nella seconda metà degli anni Quaranta si tentò un approccio più oggettivo ricorrendo alle analisi dell'entropia linguistica, la stessa che ci rivelò che la parola più utilizzata della Bibbia era la congiunzione "e", essa misura l'incidenza delle parole in un testo, la lunghezza delle stesse e la loro posizione all'interno delle frasi. Grazie a questo metodo, che forse ho spiegato un po' confusamente, si riconobbe che in realtà quelle parole non significavano assolutamente nulla. Questo, tuttavia, non impedì ad altri di vedere nelle pagine del Voynich altri misteri, altre lingue.

Su come poi il manoscritto sia arrivato da Praga a Frascati, dove è situata Villa Mondragone, posso azzardare un'ipotesi: Dee se la passò abbastanza male dopo il suo abbandono della corte dell'Imperatore, papa Gregorio XIII lo fece pedinare dalle spie del Santo Uffizio con lo scopo di farlo condurre a Roma per bruciarlo su rogo come mago. L'alchimista si salvò grazie a Rodolfo II che però lo bandì dai suoi territori. Non mi sembra lontana l'ipotesi, visto l'interesse che la Chiesa aveva nei confronti delle opere di alchimia e stregoneria, che vede, in tempi successivi, il Santo Uffizio appropriarsi del manoscritto. Perché era conservato a Villa Mondragone e non negli archivi del Vaticano?

Forse avevano già capito che si trattava di una bufala.

Immagini: John Dee in un ritratto conservato all'Ashmolean Museum; pagina del manoscritti contenente il disegno di quello che sembra un girasole; pagina del manoscritto mostrante la strana scrittura che lo compone.

mercoledì 24 settembre 2008

Il pifferaio magico



Sulla vetrata di una chiesa della città di Hamelin figurava l'immagine di un uomo nell'atto di suonare un piffero, seguito da molti bambini vestiti di bianco. La vetrata sembra essere descritta in alcuni testi del XIV e XVII secolo, tra i quali il "De miraculis sui temporis" di Jobus Fincelius.
Aiutata dall'immagine sulla vetrata si diffuse la leggenda del Pifferaio Magico che fu ripresa dai fratelli Grimm nel XIX secolo. La leggenda narra di una città tedesca della bassa Sassonia, Hamelin, preda di un'invasione di topi; a liberare la città interviene un uomo, munito di un piffero che, avendo ricevuto la promessa di un degno compenso, conduce i ratti, ipnotizzati dalle note dello strumento, fino al fiume Wesser dove annegano. Tornato in città per riscuotere il compenso, questo gli viene negato e il pifferaio, per vendetta, riprende a suonare il piffero ma questa volta non lo seguono i topi ma i bambini del paese che verranno rinchiusi in una  caverna e non torneranno mai più a casa.
La leggenda sembra risalire a un tragico episodio realmente accaduto al quale si aggiunse solo in seguito la parte dell'invasione di topi. A coadiuvare questa teoria vi è un'iscrizione databile del 1602-1603 ritrovata a Hamelin che recita così:


Nell'anno 1284, il giorno di Giovanni e Paolo

il 26 di giugno
Da un pifferaio, vestito di ogni colore,
furono sedotti 130 bambini nati ad Hamelin
e furono persi nel luogo dell'esecuzione vicino alle colline.

Cosa avvenne dunque nel 1284? per rispondere a questa domanda sono fiorite delle ipotesi.
La prima ipotesi vuole che i bambini siano stati vittime di un'epidemia, allontanati per evitare che si infettasse tutto il villaggio. Poteva trattarsi di peste o di ballo di san Vito, in questo caso il Pifferaio si fa metafora del Diavolo mettendo in scena una sorta di danza macabra.
La seconda ipotesi si riferisce a quella che è nota come la "Crociata dei fanciulli" che ebbe origine dalle visioni di un bambino di Cloyes-sur-le-Loir il quale provò a convincere il re Filippo II di Francia a imbarcarsi in questa impresa ma restò inascoltato. Noncurante delle esortazioni del re a lasciare perdere il progetto il bambino prese a predicare la necessità di questa crociata, dicendo che il mare si sarebbe aperto davanti a loro come il Mar Rosso davanti a Mosè. Raccolse proseliti che si diressero con lui alla volta di Marsiglia dove il mare non si aprì ma venne loro offerto un passaggio per la Terra Santa da un gruppo di mercanti. Alcune delle navi affondarono con il loro giovane carico nel Mediterraneo, i bambini che arrivarono alla meta furono invece venduti ai Saraceni come schiavi. Ricerche recenti parlano di due crociate di fanciulli, una partita dalla Francia e l'altra dalla Germania, avviata da un pastore tedesco di nome Nikolaus, poi fuse insieme nelle cronache di storia. Potrebbe essere questa un'ipotesi valida, e in effetti rimase quella più accreditata almeno fino agli anni 50 del XX secolo. Tuttavia le date non coinciderebbero: l'iscrizione cita come riferimento temporale il 1284, la Crociata dei Fanciulli nel 1212.
La terza ipotesi, che oggi gode del favore maggiore, vede i bambini non più protagonisti di una tragedia ma esuli volontari, protagonisti del progetto di colonizzazione della Germania orientale, reclutati dai proprietari terrieri di Moravia, Pomerania e Prussia Orientale.

Aggiungo una curiosità. Non so da dove mi viene questo ricordo, probabilmente dal Teo, ma sembra avere un riferimento anche in Wikipedia. Dal 1404 al 1797 (Campoformio) Vicenza fu dominata dalla Repubblica di Venezia che si occupava di tutte le necessità del territorio. A seguito della peste del 1630, immortalata dal Manzoni ne "I Promessi Sposi", la questione più pressante per la Repubblica veneziana era l'eliminazione dei topi, principale veicolo di propagazione del male, il Doge Nocolò Contarini si premurò di inviare a Vicenza una buona fornitura di gatti per debellare i piccoli untori e, nonostante le richieste del Doge i felini non tornarono mai a Venezia. Ecco perché si dice Vicentini magnagatti.

Immagine: dipinto di Augustin von Moersperg (1592), copiato dalla vetrata della chiesa di Hamelin Germania

lunedì 22 settembre 2008

Monete


Ci sono delle cose che mi incuriosiscono sempre quando visito un museo: la monete.
Non ho la passione della numismatica ma quando le vedo, così minute, a volte così fragili e malridotte, mi incanto.
La loro presenza ci dà così tante informazioni sulle epoche trascorse: i mercati raggiunti, i viaggi, i visitatori, le alleanze e le guerre.
Le piccole collezioni sono quelle che più mi attraggono, quelle nate per caso, come quella presente al Palazzo Ducale di Urbino, monete del 1400-1500 la cui presenza si deve a un ritrovamento casuale durante il restauro della Rocca di Mondavio nel 1972.
Qualche giorno fa sbirciavo su La Storia, enciclopedia a volumi uscita con il quotidiano La Repubblica, alla ricerca di informazioni su Alessandro Magno. Era sera e, stranamente, non avevo ancora sonno, così mi misi a sfogliare il libro distrattamente, quando il mio occhio si soffermò sulla pagina dedicata alle monete del tempo greco. 
La moneta non è mai stata semplice strumento a sostituzione del baratto: sin dai suoi primi utilizzi era il riflesso delle rivalità e delle esigenze dei paesi che le emettevano, per Filippo e Alessandro era un mezzo per giungere alla sopraffazione dei suoi concorrenti.
Per questo si batteva la dramma attica, basata sul valore che aveva l'argento ad Atene.
Quello che doveva essere il simbolo del prestigio del re macedone si dimostrò però un problema proprio a causa della vastità del suo Impero: in Macedonia e in Attica l'argento veniva estratto, il valore nominale, quindi, corrispondeva al valore intrinseco, ma quando la moneta veniva imposta a paesi nei quali l'argento era più raro, la stessa moneta si faceva più pesante, rendendone così difficile l'utilizzo. In oriente poi, il valore nominale non veniva minimamente considerato e la moneta veniva minuziosamente pesata e valutata.
Come uscire dunque dall'empasse?
Semplice, si coniarono due monete: una alta, di tipo attico, per ragioni di prestigio, una bassa per rispondere alle esigenze di circolazione e di commercio e la filosofia della "moneta a basso costo" fece tanto successo da essere poi incamerata anche dai Tolomei in Egitto e dai Romani: più liquidità, più mercato, più ricchezza.
Beh, successo sì, almeno fino a che si è potuta gestire la circolazione delle due monete tenendole separate, quando questo non è stato più possibile, a causa dell'incremento de commerci, dei viaggi, dei doni, la sopravvivenza di monete dal valore intrinseco differente cominciò a costituire un serio problema. Col trascorrere del tempo poi, terminato l'uso della moneta doppia, continuava a sussistere questo problema, dovuto al fatto che le monete restavano sul mercato per lungo tempo ed erano soggette non solo all'usura che ne disperdeva il metallo prezioso, ma anche alla pratica illecita di grattarne il materiale sui bordi (e di qui l'introduzione della zigrinatura).A questo problema propose una soluzione Sir Thomas Gresham (Londra 1519-1579), consigliere economico della regina Elisabetta, che diede origine a una legge monetaria, tutt'ora vigente, nota come Legge di Gresham o, più semplicemente, "la moneta cattiva scaccia la buona". Tale legge dice che, se si trovano in commercio due monete con lo stesso valore nominale ma diverso contenuto di metallo prezioso, la moneta più pesante viene tesaurizzata e scompare mentre resta in vigore l'altra.

Confesso che l'introduzione dell'Euro, a prescindere dalle questioni che si possono sollevare riguardo alla comodità o a come abbia cambiato la nostra vita, mi lascia con l'amaro in bocca anche per questioni falso-collezionismo. Come ho già detto non ho la passione per la numismatica ma mi piace, quando torno da un paese estero, conservare qualche moneta come prova tangibile del mio viaggio, e mi piace anche quando dai loro viaggi gli amici mi portano due spiccioli, un modo per legare la loro esperienza alla mia, tutte insieme in un sacchetto, lasciando che si dimentichi chi è stato dove.
Confesso ancora che le mie ultime 5000 lire non le ho spese: le conservo gelosamente nascoste.

Foto: è stata postata dall'utente RCAMIL sul sito www.lamoneta.it

sabato 20 settembre 2008

Il vecchio saggio


Lascia che agli occhi della tua mente appaia la montagna, un’altra montagna. Questa volta la esplorerai alla ricerca del Vecchio Saggio e, quando lo troverai, potrai porgli tutte le domande che vorrai.
Nota: Ho detto ‘domande’ e le persone, di solito, si pongono nella posizione subordinata di chi pone domande e attende risposte.
Difficoltà, anche maggiore del solito a muovere le labbra e articolare le parole.

Scc, scc, scc. Ci ci ci cielo. Il cielo è sereno. (Sono?)… C’è una specie di cresta (?) che ogni tanto diventa come una lama del rrrr rrrr rasoio. Difficile camminare sulla lama del rrrr rrrr rasoio. Ma sono già in quota, tutt’attorno il precipizio, mmmm ma non ho paura. Già da subito, in lontananza, percepisco la figura dell’Anziano con una specie di tunica fino ai piedi. Vorrei avvicinarmi, ma faccio fatica a trovare uno spiazzo, si fa fatica, è come lama di rasoio. Questa lama che cambia forma: si appiattisce e poi ancora lama. Mi devo rassegnare a camminare sulla lama, ma tanto so stare in equilibrio e non ho paura. Ma non riesco ad arrivare all’Anziano. Ne intuisco la figura, ma non lo vedo.

Ecco fatto. Forse… sì, la lama si è trasformata in un ponte di corda e ci incontriamo a metà. Mi fa piacere che anche la Saggezza faccia qualche passo verso di me e mi venga incontro. Eh, sennò perché solo io muovermi verso di lei? In fondo, abbiamo tutti e due interesse a incontrarci. Ciò che tu mi dai potrei restituirtelo in altra forma, chissà. Tu, la Saggezza, io la Quotidianità.

La saggezza è astrazione, ma per vivere nel quotidiano devi pur fare i conti con la realtà, dimmi se sbaglio.

Apprezzo molto il fatto che tu non abbia voluto costringermi a venire verso di te. A muovermi solo io. Sarebbe stato come chiedermi di abbandonare il quotidiano e non va bene questo. Non sono un eremita, ho piacere che tu lo abbia capito. Adesso toccami: vedi che sono fatto di carne e ossa e non posso prescindere da queste. La carne, le ossa. La fame, il caldo, il freddo, la passione, la paura, inciampare negli ostacoli sono tutte cose del quotidiano, hai voglia a metterci saggezza! Tu sei astratto, puramente puro pensiero. Certo, tutto ciò che pensi è perfetto, è come un teorema di matematica: perfetto. Vai poi ad applicare il teorema nella vita quotidiana. I numeri non sono più quelli, il peso è diverso, le quantità pure e c’è sempre qualche stramaledetto individuo che vuole impedirti di fare quello che vuoi.

Il compimento del perfetto nell’imperfetto è lavoro sovrumano, dimmi se sbaglio. Sorridi, eh, sorridi? Pensa pure che ho scoperto l’acqua calda e tu lo sai meglio di me. Ribadisco: mi fa piacere che tu non sia rimasto chiuso dentro la tua caverna, ma sia venuto verso di me. Ringrazio anche la lama per essersi trasformata in ponte di corda che ci ha consentito un incontro più agevole, ma, in fondo, vedi che bisogna tenersi.

E’ pur comodo il ponte, ma non possiamo sbagliare l’incontro perché sotto di noi c’è il precipizio.
Cerchiamo di capirci quindi: un passo io verso di te, un passo tu verso di me.
Forse, chissà, potremmo anche provare ad abbracciarci per vedere se possiamo diventare una persona sola, che poi sarebbe l’ideale.
Teoria e pratica.
Sogno e realtà.
Saggezza e quotidianità.
Abbiamo dimostrato che non è vero che sono distanti, ma si possono incontrare sul ponte di corda che ci è venuto in aiuto.
Chissà chi lo ha costruito. Ma già, che stupido! Non l’ha costruito nessuno, siamo noi che lo abbiamo voluto. Bravo Saggio! Bravo Saggio! Bravo Saggio! Bbb bbb ba ba

Svegliarsi la mattina, lavarsi, fare colazione in fretta con un caffè, vestirsi, andare al lavoro. Mezz'ora di macchina e poi la scrivania, telefonate, appunti, agenda, "chiedi al capo". Pausa, cibo, musica, libro... ecco la mia lama di rasoio: quella passeggiata radente le mura del fabbricato, stendo il telo, accendo la radio, tiro fuori acqua e yogurt, apro il libro e incontro il mio Saggio.

Mi parla. Ieri era Rodolphe di Geroldstein, prima Hans Castorp, oggi è Isabella d'Este. Lui mi parla e io lo ascolto. Qualche volta intervengo anch'io, nel modo consono a questo tipo di dialogo: sottolineo i suoi pensieri, lo commento se ne ho la possibilità, perché lui sa tante più cose di me... ma lui ha parlato solo con se stesso, io ho tanti interlocutori. E' bello quando mi lascia il mio spazio, quando alla fine mi riserva candide pagine dove annotare i miei pensieri perché scrivere a margine è scomodo. Io mi arricchisco con lui, ma ho la sensazione che anche lui si arricchisca con me, che il nero e il bianco si riempiano di colori.

Che senso avrebbe se lo stessi solo ad ascoltare, quale senso se mi impedisse di comunicare con lui. Quale senso se il Saggio se ne sta nella sua caverna a pensare solo.

Vieni dunque avanti Saggio, e abbracciami. Prendi da me quello che sono, io prenderò quello che sei. 

Dolce rapina.

Una sola regola si pone tra noi: niente domande. Io non ne pongo a te, tu non ne poni a me, accettando entrambi i doni che ci portiamo.


Foto: Torino, capodanno 2007

martedì 16 settembre 2008

Cenerentola

Sarà perché l'altro giorno è uscita, nella collezione "Invito all'opera", "La Cenerentola" di Rossini, sarà perché tempo fa mi è capitato di vedere in televisione "I fratelli Grimm e l'incantevole strega", mi è venuta l'idea di iniziare un ciclo, pubblicato in tempi alterni, dedicato al mondo della fiaba. L'idea era già in nuce dopo la visione del film, quando, in preda a rimembranze universitarie, volli dare un'occhiata alla voce "fratelli Grimm" sull'enciclopedia, cercando corrispondenze con quanto mi ricordavo degli studi sul mondo della fiaba. Neanche a dirlo, la mia Compact del 1990, comodissima da portare a letto, era d'accordo con me nell'associare la redazione delle fiabe antiche dei Grimm con quel sentimento tipicamente tedesco del 1800 volto alla riscoperta delle origini germaniche, grazie al quale ebbero slancio gli studi di linguistica con l'elaborazione di alcune delle sue regole principali.
Non starò a ricordare la storia, che immagino sia conosciuta più o meno da tutti in versioni tra loro simili, il mio scopo sarà quello di proporre una breve panoramica sulle versioni che ci sono state tramandate dalla letteratura.
La prima volta che il personaggio di Cenerentola viene citato è stato nelle "Storie" di Erodoto (libro II, 134-135) nel trattare della piramide di Micerino  
"Alcuni Greci attribuiscono questa piramide a Rodopi, la cortigiana, ma non è vero
e ancora 
"Rodopi era di stirpe tracia, schiava di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli, e compagna di schiavitù di Esopo, il favolista [...] Rodopi giunse in Egitto al seguito di Xanto di Samo, vi giunse per esercitarvi l'antica professione, e vi fu riscattata per una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello della poetessa Saffo ". 

Del fatto che il fratello di Saffo si fosse innamorato della schiava si può trovare corrispondenza nel frammento 5 della poetessa che recita 
"O Cipride e Nereidi, sano e salvo/Mio fratello qui datemi che torni/E quanto col suo cuor vuole gli avvenga/Tutto si compia/E sciolga il nodo degli errori un tempo/Compiuti e gioia per i suoi amici/Divenga e pena per i suoi nemici/E più nessuno". 
La storia narra che Rodopi, alla quale il padrone aveva regalato un paio di scarpette rosse, invidiata per la sua bellezza, viene sottoposta a una serie di angherie dalle altre schiave. Il dio Horus, forse impietosito, sotto le sembianze di falco, ruba le scarpette e le deposita in grembo al faraone che, interpretando l'accaduto come un segno, stabilisce di sposare la proprietaria delle scarpette. (Il topos dell'uccello rapace, determinante nelle storie di avventura e d'amore, lo ritroveremo nella letteratura romanza... ma questo sarà forse un altro soggetto per post).
E vissero felici e contenti.
Ritroviamo Cenerentola in Cina sotto il nome di Ye Xian, la trascrizione della sua storia risale al IX secolo. Figlia di un sapiente, alla morte della madre viene ridotta in schiavitù dalla matrigna. Trova consolazione nell'amicizia con un pesciolino, reincarnazione della madre, che un bel giorno viene pescato e servito come pranzo. Alla disperazione segue un sogno in cui la madre le dice di seppellire le sue lische in vasi posti agli angoli del suo letto. C'è anche qui un ballo importante al quale le viene impedito di partecipare per non concorrere con le sorellastre ma la madre invita Yen a disseppellire i vasi di lische che si sono trasformati, nel frattempo, in splendidi vestiti, ricchi gioielli e scarpette dorate. Il resto è come lo conosciamo: lei va al ballo e ammalia il principe, perde una scarpetta, il principe la cerca e la trova.
E vissero felici e contenti. Possibile che da questa leggenda sia nata la passione dei Cinesi per i piedi piccoli fino a trasformarsi in tortura?
Finalmente la fiaba approda in Italia con Gianbattista Basile che nel 1634-36 pubblica una raccolta di fiabe sullo stile del Boccaccio, "Lo cunto de li cunti", tradotto dal napoletano in italiano da Benedetto Croce che lo definì "il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari...". In questa raccolta figura "La gatta Cenerentola", altrimenti detta "Zezolla", ritenuta fonte primaria della versione di Perrault.
La storia narra di Zezolla, figlia di un principe vedovo che si era risposato con una donna perfida. La poverella si confida con la sua tutrice che, vedendo la possibilità di sposare il padre di Zezolla, la istiga a uccidere la matrigna. Detto, fatto,  il padre si risposa con la tutrice che sembra amare la figliastra, almeno finché non si ricorda di avere delle figlie, fino ad allora tenute nascoste, che prendono presto il primo posto nella vita coniugale lasciando Zezolla alle ceneri del focolare e per questo viene chiamata in famiglia Gatta Cenerentola.
Ricordate il pesciolino della fiaba cinese? Qui diventa colomba e dice alla giovane che, qualora avesse bisogno di aiuto, si deve rivolgere alla colomba delle fate nell'isola di Sardegna. Dopo aver subito a lungo la sua triste sorte si rivolge alla Colombella che le fa dono di oggetti magici e la istruisce su di una formula magica da pronunciare nel caso desideri qualcosa. Arriva finalmente il momento in cui si indice un grande ballo, anzi, a dire il vero i balli si susseguono, Zezolla appare vestita di tutto punto e, al momento di lasciare la festa, riesce a seminare gli informatori che il re gli mette alle calcagna perché invaghito di lei. Dopo il terzo ballo e la terza fuga Cenerentola perde una scarpetta che viene raccolta da uno dei servitori del re che la porta al suo padrone. Il re allora indice un bando per il quale tutte le giovinette del reame si devono presentare a Sua Altezza. Il resto è come si ricorda: il re vede la ragazza, la riconosce e si sposano. E vissero tutti felici e contenti. Il testo è carino, il suo passaggio in Occidente lo ha forse fatto diventare un po' più truce con l'episodio dell'omicidio della matrigna ma la lingua è agevole, la narrazione scorrevole e contiene quel tocco di volgarità sufficiente per scatenare il comico.
Nella tradizione di Perrault (1628-1703) ritroviamo la versione più nota e, forse, più cortese, racchiusa nel celebre libro di fiabe "I racconti di mamma Oca". Qui gli animali magici e parlanti lasciano il posto a una figura umana in carne e ossa, una Fata; compare la zucca che si trasforma in carrozza e compaiono i topolini trasformati in bellissimi cavalli mentre in cocchiere viene trasformato un bel sorcione, e sei lucertole faranno da lacchè. Le scarpette si fanno di vetro e, per la prima volta viene stabilito il limite della mezzanotte come scadenza dell'incantesimo. Perrault, ricalca Basile, anche nella sua versione, infatti, i balli sono due, e, proprio durante il suo ritorno a casa dopo il secondo ballo Cenerentola perde la scarpetta. Tutto viene raccontato secondo la versione che conosciamo ma è da sottolineare che per la prima volta viene inserita, in appendice alla storia, una morale, anzi due: nella prima si esalta la bellezza esteriore come specchio di quella interiore, nella seconda si esalta il privilegio di avere delle comari fidate.
Nella versione dei fratelli Grimm la storia ricalca la tradizione di Perrault salvo che per alcuni particolari. Un giorno il padre, che si doveva recare in città, domanda alle figlie cosa desiderino, le figlie di secondo letto chiedono vestiti e gioielli, Cenerentola gli chiede di portarle "il primo rametto che vi urta il cappello". Al ritorno del padre Cenerentola riceve un rametto di nocciolo che va a piantare sulla tomba della madre e innaffia con le sue lacrime. Il rametto cresce e diventa un albero sul quale si posa un uccellino bianco che, se ella esprimeva un desiderio, le gettava quello che chiedeva. 
Ed ecco che ritorna l'immagine dell'animale magico che, per rispondere a un suo desiderio, le fa cadere addosso dal nocciolo vesti dorate, gioielli e scarpine d'argento e di seta. Come in Basile e Perrault le feste sono più di una e, a ogni ritorno a casa, Cenerentola depone le vesti ai piedi del nocciolo dove vengono prese dall'uccellino che gliele restituisce il giorno dopo prima della festa. Al terzo ballo il principe, stufo di vedersi sfuggire la sua amata, per impedirla nei movimenti cosparge la scalinata del palazzo di pece e una scarpina vi rimane attaccata. Nella versione dei Grimm il principe è un po' tonto e si lascia trarre in inganno dai trucchi che le due sorellastre escogitano, tra mille patimenti, per calzare la scarpetta. Prima una, poi l'altra, le carica sul cavallo e fa per portarsele a castello ma viene avvertito dall'uccellino: l'amata si trova ancora nella casetta. Una volta trovata la vera proprietaria della scarpetta si celebra il matrimonio. In questa versione la morale non viene pronunciata esplicitamente ma si fa orrida punizione perpetrata dagli uccellini che prima l'uno, poi l'altro, strappano gli occhi alle sorellastre.

Vi sono molte altre versioni di questa fiaba, che si possono trovare sul sito www.parole d'autore.net

Immagine: "Cendrillon", incisione di Gustave Doré

sabato 13 settembre 2008

Yo pienso si me muriese



Penso che se dovessi morire
E con tutto il mio dolore
Smettessi di bramare
Negare un amore così grande
Potrebbe lasciare il mondo
Senza amore.
Quando ci penso,
II lungo indugiare nella morte è tutto
Quello che posso desiderare,
Poiché la ragione mi dice
che è una perfetta beatitudine essere preda
Di un simile fuoco.




Yo pienso si me muriese 
y con mis males finase desear 
Tan grande amor fenesciese 
que todo el mundo quedas» 
sin amar 
Mas esto considerando 
mi tarde morir esluego 
tanto bueno 
Que deuo razon usando 
gloria sentis e nel fuego 
donde peno. 

Questa la traduzione di un poema d'amore del poeta aragonese Lope de Estuniga, Yo piense si me muriese..., trascritto dalla mano di Lucrezia Borgia in una lettera destinata a Pietro Bembo. Mi dispiace dire che su questo autore non ho trovato riferimenti.

Il Bembo le rispose dedicandole gli Asolani, tre libri in prosa ambientati ad Asolo che rimandano, per stile e ambientazione, alle atmosfere boccacesche del Decameron, cui sono intercalate alcune canzoni nello stile del Petrarca. Uno di questi sonetti in particolare sembra essere risposta diretta alla lettera di Lucrezia. Il sonetto appare come manifesto di quell'amore cortese e platonico del nuovo petrarchismo tanto in voga ai primi del 1500: nelle quartine si distinguono le bellezze fisiche della donna, nelle terzine le qualità morali.

Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura, 
ch'a l'aura su la neve ondeggi e vole, 
occhi soavi e più chiari che 'l sole, 
da far giorno seren la notte oscura,

riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura, 
rubini e perle, ond'escono parole
sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle, 
man d'avorio, che i cor distringe e fura,
cantar, che sembra d'armonia divina, 
senno maturo a la più verde etade, 
leggiadria non veduta unqua fra noi,
giunta a somma beltà somma onestade, 
fur l'esca del mio foco, e sono in voi 
grazie, ch'a poche il ciel largo destina.

Il carteggio tra Lucrezia e Pietro consta di nove lettere, conservate presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, due in spagnolo, lingua materna di Lucrezia, sette in italiano. Tra esse è conservata anche una ciocca di quel "crin d'oro crespo e d'ambra tersa" che il Bembo potè ammirare direttamente l'unica volta che lei si sciolse i capelli in sua presenza.

Trecento anni dopo Lord Byron, estasiato da quelle che definì "le più belle lettere d'amore del mondo", ruberà un filo d'oro da quella ciocca, riportando alla luce, con il suo ingenuo feticismo, una storia dimenticata allora, forse dimenticata ancora oggi.

I nemici di Lucrezia e, in generale, i nemici dei Borgia, hanno consegnato alla storia un'immagine spietata di questa donna, riversandole addosso tutto l'odio provato nei confronti di suo padre Alessandro VI e del fratello Cesare. Per decenni padre e figlio Borgia hanno spadroneggiato in Italia, plasmandone il territorio secondo il loro volere. Le loro vittime, nell'impossibilità di vincerli sui campi di battaglia o sul territorio diplomatico, hanno tratto un'unica, crudele, soddisfazione nell'infangarne la memoria. Ciò che ci resta di Lucrezia è un ritratto a tinte fosche

... quanto è distante da quella donna che soleva iniziare le sue missive con "Misser Pietro mio carissimo".

Immagine: particolare dell'affresco La disputa di Santa Caterina, Pinturicchio, Sala dei Santi degli appartamenti dei Borgia in Vaticano. Molti hanno visto nelle vesti della Santa il ritratto di Lucrezia adolescente.

mercoledì 10 settembre 2008

Un'esperienza di sensi


Qualche giorno fa, una domenica, navigando su You Tube decisi di provare.

Tanti anni fa, guardando per la prima volta Philadelphia di Tom Hanks, rimasi colpita dalla scena che vedeva lui, attaccato a una flebo, aggirarsi per casa e in un sottofondo crescente le note dell'Andrea Chenier di Umberto Giordano. Mi resi conto allora, ma in fondo l'avevo sempre saputo, del grande potere evocativo della musica che sovrasta quello delle parola. Ho sempre pensato a quel brano negli anni, lo ho considerato quasi come un amico, uno di quelli che non si fa mai sentire ma che probabilmente un giorno farà capolino dalla buca delle lettere, o dalla porta. Ebbene l'amico ha fatto capolino quella domenica.
Ho digitato Andrea Chenier Maria Callas e... toh! Chi si rivede... poi, non paga, ho seguito gli altri video proposti da You Tube e ne ho fatto man bassa nei preferiti. Tante interpretazioni della Callas "simpaticamente" diretta da un giovanissimo George Pretre, lo stesso che al concerto di Capodanno di quest'anno ha tirato fuori un pallone da calcio salutando così l'anno di Euro2008 Austria-Svizzera.
La prima volta non si dimentica... la prima volta all'opera fu per la Madama Butterfly, non ne sapevo nulla e detti una letta veloce al riassunto del libretto che mi avevano passato. Si mostrò la scenografia e... stupore, un enorme struttura a mo' di quadro svedese, bianco e nero, tutta la rappresentazione poggiava sui colori bianco, nero, rosso. L'Arena di Verona era essa stessa spettacolo, gremita di persone sembrava tuttavia non riempirsi mai, come a dire "Sono qui da sempre, resterò dopo di voi, non importa quali diavolerie mi porterete, io resto". Le luci si abbassavano e si accendevano le candeline, rianimata consuetudine che ebbe origine ai tempi delle prime rappresentazioni all'Arena, quando l'impianto elettrico non c'era e per leggere i libretti si ricorreva a candele in cera.
Quando tornai per il concerto di Eros le candeline erano state sostituite dai colorati schermi dei telefonini.
Nel lungo tramonto di luglio la luce del sole lontano disegnava a tinte forti i margini frastagliati del grande Teatro.
C'era poesia in tutto questo.
La serata era perfetta, senza vento, e si riusciva a udire ogni singola parola in canto. Madama Butterfly era Raina Kabaivanska in una delle sue ultime apparizioni.
Non ricordo come cominciò, ricordo solo che era da poco iniziata l'ultima scena del primo atto, dopo il matrimonio, la prima notte di Butterfly e Pinkerton, il duetto che mi fece sua. Cominciò con una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco e si sfogò con un'esplosione che non riuscii a prevedere. C'era un ciccione tedesco davanti a me, innocentemente appisolato accanto a sua moglie che lo guardava con aria di rimprovero mista a vergogna. Sobbalzarono entrambi al primo singhiozzo e mi guardarono minacciosi. L'aria terminò, io continuai a dirotto per tutta la durata dell'intervallo.
Si rispensero le luci nell'Arena e ritornai in me, cercando di rivivere quell'emozione... 


Se ne era andata.

Ogni volta che ascolto l'opera cerco di recuperare quel sentimento catartico, non funziona, la mia mente sente che sto ricostruendo un'emozione e si rifiuta di collaborare.
Era la prima volta all'opera.


lunedì 8 settembre 2008

Ciao Lucio

Lasciatelo caricare un po'

Ciao Lucio,
grazie.

Grazie per avermi accompagnata nei viaggi lunghi, e nei viaggi brevi.
Grazie per le giornate trascorse con me sulla spiaggia sotto il sole.
Grazie per i giri insieme in bicicletta
e grazie per quelli insieme a piedi.
Grazie per avermi accompagnata, tu con la chitarra in mano e io con una spazzola come microfono.
Grazie per avermi fatta innamorare.
Grazie per avermi consolata.
Grazie per aver studiato insieme a me...
Grazie le lunghe trecce,
grazie acqua azzurra
grazie giardini di marzo,
grazie gallina.
Grazie e basta.
Il viaggio continua...

sabato 6 settembre 2008

Titolo



Sono trascorsi tre mesi dal primo post. 
Tre mesi sono una sorta di deadline immaginaria per bilanci, revisioni, propositi.
Dopo tre mesi mi rendo conto di non aver mai giustificato la scelta del titolo di questo blog.
Mi trovavo su google, nella pagina del mio account compariva, tra le tante voci, le voce "Blogger" e, mossa da curiosità mi ci sono addentrata.  Arrivato il momento in cui mi si chiedeva di dare un titolo alla mia pagina la scelta è stata immediata, è venuto da sé e in un attimo è comparsa l'intestazione.
Era il 1993, terza media, credo che sia stata la professoressa Castelli a citare Les Illuminations di Rimbaud ma non ne sono sicura, con molta probabilità si tratta di un ricordo ricostruito. Fatto sta che quella parola, Illuminazioni, continuava a girarmi nella testa.
Quell'estate, a Pescara, bazzicando come al solito tra librerie e bancarelle di remainders, trovai un'edizione in lingua originale delle opere di Rimbaud, controllai bene che contenesse il testo che cercavo e la acquistai. Provai a leggere qualcosa ma mi era decisamente troppo criptico allora, considerando anche il fatto che non avevo la più pallida idea di chi fosse questo Rimbaud...  Mi piaceva la parola.
Io sono irrimediabilmente attratta da tutto ciò che è bello, esteticamente bello nel suo significato etimologico. Nonostante la parola "illuminazioni" sia sporcata da una "z" e una "u", lettere per le quali provo una certa avversione, quella sequenza di ll, m, n, n mi è sempre piaciuta. L'idea stessa di Illuminazioni si collega immediatamente con il verso di Salvatore Quasimodo

trafitto da un raggio di sole

che mi ha sempre lasciato una sensazione dolorosamente positiva.
Credo sia per via di quell'idea di luce, di effimero, di immediato, pura estetica, pura percezione dei sensi trasmessa in un attimo alla mente e in un attimo persa. 
Come i vent'anni di Rimbaud, appena arrivati e già svaniti.

Les voix instructives exilées... L'ingénuité physique amèrement rassise... — Adagio — Ah! l'égoïsme infini de l'adolescence, l'optimisme studieux : que le monde était plein de fleurs cet été ! Les airs et les formes mourant... — Un chœur, pour calmer l'impuissance et l'absence ! Un chœur de verres, de mélodies nocturnes... En effet les nerfs vont vite chasser.

Un coro, per calmare l'impotenza e l'assenza! Un coro di bicchieri, di melodie notturne... Infatti i nervi mancheranno in fretta di stabilità.

Beh, anche questo blog mancherà di stabilità

PS: Girovagando mi sono resa conto che di Folgorati da Rimbaud, per vari motivi, ve ne sono parecchi, io ne propongo due:




mercoledì 3 settembre 2008

Temporale

La micia ha paura del temporale e si rifugia sotto i mobili di cucina.
(non avete idea di cosa abbia fatto per poter scattare la foto)